Se la guerra cambia pelle

Il modo di combattere si modifica nel tempo, così come i suoi attori. Un'analisi su come è diventato il "guerriero" moderno

Emanuele Giordana

Il famoso motto di Carl Von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” si potrebbe ribaltare nel suo opposto e cioè che “la diplomazia (ossia la politica) è la continuazione della guerra con altri mezzi”, come conferma la scelta di imporre sanzioni (lo abbiamo visto bene in Irak) che sono di fatto un altro modo di condurre un conflitto. Ma se questo è un dibattito che riguarda soprattutto la filosofia politica, è vero che la guerra – il modo di condurre una guerra – cambia continuamente. E non sembra quasi mai escludere la forza, che si esplicita con armi sempre più sofisticate e regole d’ingaggio che tentano, semmai, di risparmiare la vita dei propri soldati, poco importa con quali “effetti collaterali”. A meno che non vi siano costretti dall’opinione pubblica, una variabile che ha preso a contare sempre di più e che richiede quindi nuove armi.

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Per restare a un dibattito di scuola, com’è cambiata la guerra negli ultimi decenni? Non si combatte più tra eserciti ma “in mezzo alla gente”, tra Stati o più spesso coalizioni di Stati (con mostrine unificate), contro combattenti senza divisa ma forti in termini ideologici. Alla radice di questa trasformazione delle guerre tra eserciti nei cosiddetti conflitti “asimmetrici”, ci sono antichi problemi irrisolti: il retaggio neo coloniale, le ingiustizie sociali e una vaga idea di riscatto identitario (etnico, religioso) che producono lo scoppio di tensioni latenti in cui si inserisce la criminalità organizzata, la devianza ideologica radicale e le manovre di gruppi di potere politico ed economico come sembra dimostrare il caso di Al Qaeda, dell’Isis o di Boko Haram. Queste “nuove guerre”, al contrario di quelle convenzionali (o di quelle non convenzionali del Novecento dove le formazioni guerrigliere si strutturavano comunque in veri propri eserciti), tendono a trascinarsi: a iniziare ma a non terminare, come ben dimostra il caso dell’Afghanistan, un Paese in guerra da oltre 40 anni. Sono guerre che fingono successi e che tendono a farci abituare alla guerra come a una delle tante forme della quotidianità moderna. Un modo per assopire la coscienza critica che difficilmente si mantiene sveglia per più decenni.

Come cambia l’arte della guerra

Le guerre asimmetriche sono dunque “guerre tra la gente” – secondo la definizione che Rupert Smith ne ha dato ne “L’arte della guerra nel mondo contemporaneo” – dove la guerra tra eserciti è stata sostituita da conflitti asimmetrici in cui il campo di battaglia sono strade, case, villaggi dove vive la popolazione civile, come è avvenuto in Cecenia, in Jugoslavia, in Medio Oriente e nel Ruanda. Ostaggi da sfruttare, scudi umani da utilizzare senza scrupoli, bersagli da colpire: civili come obiettivi da conquistare dagli uni e dagli altri. Un nuovo “paradigma” bellico che ha minato però la possibilità di un uso efficace della forza: il consenso infatti va ormai sempre più considerato (conquistare i cuori e le menti) ed è ormai un’arma di cui non si può più fare a meno. Un fatto che spiega anche perché i militari non sono più in grado di ottenere i risultati che i politici pretendono da loro.

 

Ma i conflitti contemporanei sono anche “guerre senza limiti”, secondo la definizione di due militari cinesi: i colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, che rileggono “L’arte della guerra” di Sun Tzu, raccontando di come oggi si conduca anche attraverso la manipolazioni dei media, le azioni di piraterie sul web, le turbative dei mercati azionari, la diffusione di virus informatici… Spesso si accompagnano a “guerre nascoste” – quelle dei droni, delle truppe speciali o mercenarie –, un altro aspetto della modernità bellica, come nel caso degli omicidi mirati israeliani o americani, entrambi specialisti in guerre nascoste che sfidano – a omicidio avvenuto – la reazione dell’opinione pubblica che vi può opporre solo un rapido sdegno (più raramente anche azioni giudiziarie che trovano però moltissimi ostacoli perché si si muove su un terreno complicato dal segreto militare e da problemi di giurisdizione).

Dopo la guerra al terrorismo

La guerra al terrorismo è stata – in parte ancora è – il grande tema della guerra moderna che sembrerebbe sempre più virare verso conflitti con sempre meno soldati ma più armi sofisticate. Ma in realtà non è cosi. Forse andiamo verso una nuova fase. La struttura militare, evolutasi da eserciti di leva a contingenti di professionisti, resta al centro della guerra e rimane un punto fermo, grazie al concetto mai superato che per fare la pace bisogna  preparare la guerra. Sembra spiegarlo bene in Italia la decisione di investire nella struttura militare parte dei soldi del Recovery Plan e lo spiega altrettanto bene un recentissimo articolo dell’Economist sull’esercito francese (The French armed forces are planning for high-intensity war 31 marzo 2021): verso una guerra ad “alta intensità” che ha già un acronimo: HEM, o hypothèse d’engagement majeur. Contro chi? Forse la Russia o la Turchia o i molti Paesi africani, teatro chiave per l’esercito d’Oltralpe che, spiega l’articolo, si trova davanti a un “cambiamento sismico”. “Trent’anni fa si occupava principalmente del mantenimento della pace. Negli ultimi dieci anni si è rivolto alla controinsurrezione e all’antiterrorismo, sia all’estero (Opération Barkhane nel Sahel) sia in patria (Opération Sentinelle). Ma nella sua visione strategica per il 2030 pubblicata lo scorso anno, il generale Thierry Burkhard, il capo dell’esercito francese, ha chiesto di prepararsi per un conflitto tra Stati ad alta intensità”. Dal peacekeeping alla hig intensity war, il contrario delle vecchie guerre a “bassa intensità”. Poi l’Economist dà la parola al generale: “Dobbiamo assolutamente prepararci per un mondo più pericoloso”… Ciò richiede quello che il generale chiama un “irrigidimento” dell’esercito di terra. Attualmente la Francia – sintetizza il magazine britannico – mantiene 5.100 soldati nel Sahel come parte di Barkhane. Le operazioni future potrebbero coinvolgere le brigate, o una divisione, ovvero 8.000-25.000 soldati. Molti di più. La necessità di cambiare scala nel prossimo decennio, afferma il generale, richiederà un mix di riforme: assunzioni più impegnative; investimento in attrezzature moderne; strutture organizzative più semplici per rendere l’esercito più agile; addestramento rafforzato per un conflitto importante. “Saremo testati sempre più brutalmente”, dice. “Dobbiamo rendercene conto.”

Guardare altrove è anche un modo per capire dove andranno le guerre di casa nostra, anche perché l’Italia raramente prende iniziative ma segue pedissequamente (vedi Afghanistan) ciò che chiedono gli alleati. In questo disegno, la guerra tende dunque a cambiare ancora di segno. Eserciti sempre più professionali per conflitti rapidi che mettano fine all’era delle “guerre tra la gente” che si trascinano per decenni anche perché ostacolate da opinioni pubbliche sempre meno tolleranti verso chi uccide, come dimostrano, anche se a fasi alterne, i movimenti pacifisti che attraversano il pianeta. L’esercito resta – almeno nei piani del generale francese – centrale. Coadiuvato dai droni, dagli attacchi in remoto, da una raffinata tecnologia che si insinua nelle centrali di comando nel nemico. E accompagnato da campagna mediatiche o sui social per convincerci del vecchio mantra: che esistono “guerre giuste” e “guerre inevitabili”. Guerre dunque che prevedono un investimento importante e continuo – di uomini e mezzi – ma che dovranno durare poco e quindi, in termini assoluti, costare di meno anche in termini di (nostre) vite umane. Una sorta di super-club, come quello che si voleva creare per il calcio, dove il protagonista non è più lo stadio e nemmeno i tifosi, ma uno schermo il cui abbonamento va pagato ogni anno. Guerre che non sporcano. Guerre sostenibili.

Opporsi alla guerra

Ma se cambia la guerra cambia anche il modo di opporsi. Cambiano i movimenti popolari come quelli che attraversano il mondo arabo o l’incredibile resistenza dei birmani che, dal 1 febbraio di quest’anno – giorno del golpe militare – non hanno mai smesso di manifestare mettendo in crisi un esercito di oltre 500mila effettivi che non sa come reagire a una resistenza che si nutre di creatività, solidarietà, capacita di informazione anche solo con un cellulare. E da manifestazioni pacifiche che però inevitabilmente si spostano su azioni più mirate e violente, ancorché con armi occasionali.

Quel che invece non sembra riuscire a modernizzarsi è la politica che, dopo aver abbandonato il multilateralismo, ha sempre meno strumenti per negoziare, mediare, trovare soluzioni e dunque prevenire. Svuotato l’Onu, dimenticata la riforma del Consiglio di Sicurezza, rinnegati i trattati di non proliferazione e ignorati persino i temi dell’etica, gli Stati si ritrovano prigionieri dei grandi club creati per fingere un’unanimità in realtà sempre più appannaggio degli imperi e dove la guerra rimane uno strumento cui, alla fine, si finisce per ricorrere anche se ammantandola di proclami. Cosi la guerra finisce per dominarci persino quando crediamo di essere noi a dirigerla anche perché un ruolo che non va dimenticato è quello dei privati: super club di contractor, mercenari privati cui nessuna legge riesce a porre limiti in una guerra senza limiti appunto, che sarà sempre più sofisticata. Un capitolo delle guerre moderne con cui dovremo fare i conti sempre di più anche se resta evidente il ruolo degli eserciti nazionali di cui i contractor sono solo la manovalanza per il lavoro sporco e in cui hanno semmai un ruolo fondamentale i servizi, l’angolo più buio e meno raccontato dei conflitti.

Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di DinamoPrint dedicato alla globalizzazione a vent’anni da quanto accade durante il G8 di  Genova. Per saperne di più clicca qui

Nel testo, il libro di Sun Tzu e, sotto,  la famosa immagine dello “Zio Sam” che chiede di arruolarsi nell’esercito stellestrisce.

In copertina particolare di un manifesto della Repubblica Sociale Italiana (Centro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea)

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