"Siempre fui loco". Viaggio nell'ospedale psichiatrico di Buenos Aires
Testo e foto di Renato Viviani
“Il male è abbastanza buono quando è tutto ciò che hai mai avuto” The Beautiful South
Julio mi aspetta davanti a un alto muro, ma non è un muro qualunque: su di esso è dipinto un murale che rappresenta una fila di poliziotti, chiaro simbolo di repressione e potere. Accanto, si distingue la sagoma grigia di un corpo in piedi, mentre un’altra sagoma, nera, è distesa a terra. Samo al Borda l’Hospedal Interdisciplinario Psicoassistecial Josè Tiburcio Borda di Buenos Aires.
Julio, con occhiali neri e un’espressione vivace e determinata, è leggermente ingobbito mentre dà le spalle alla scena dipinta sul muro, quasi a proteggersi. Sembra voler sfidare l’ordine imposto, come se stesse raccontando una storia di lotta e di protesta.
Il murale dietro Julio, colorato e pieno di simboli, amplifica il senso di tensione e conflitto. Julio sembra incarnare la voce di chi non vuole essere messo a tacere, di chi sfida un sistema oppressivo, e protesta contro le ingiustizie sociali. Si trova qui da trentanove anni e mi racconta di come ci è arrivato tradito dal fratellastro, negli anni bui della dittatura, per portargli via la casa “mi lasciarono qui senza alcuna ragione, sin ninguna razon” ripete un paio di volte. Poi continua parlandomi della radio e dei personaggi che l’hanno resa famosa come Manu Chao e Francis Ford Coppola, dei primi tentativi di radiocronaca delle partite di calcio, e di come tutte queste esperienze gli hanno illuminato i giorni al Borda. Ridendo aggiunge: “somos los unicos locos con antena” “Siamo gli unici matti con un’antenna”.
Ci raggiunge Gabry, una signora sessantenne, anche lei ospite della struttura. Bassina, con capelli biondi intrecciati come quelli degli scandinavi. Davanti al murale con il plotone di poliziotti, mi racconta di come di come nel 2013 hanno tentato di chiudere e abbattere il Borda per una speculazione edilizia. Mi parla della grande risposta dei pazienti, degli operatori dell’ospedale e degli abitanti del quartiere di Barracas: “La repressione della polizia fu forte e violenta, ma noi, tutti insieme, abbiamo salvato il Borda.” Poi si sdraia davanti alla sagoma nera del murale. Questa è stata la mia prima esperienza in un manicomio, e non in un manicomio qualunque, siamo al“ Borda“ qui c’è la sede di Radio La Colifata, che in lunfardo, il dialetto di Buenos Aires vuol dire matto.
L’ospedale, nato nel 1863, si estende su 20 ettari e ospita 1400 pazienti. Fa parte della facoltà di Medicina e, negli anni della dittatura di Videla, fu un centro clandestino di detenzione. Nel 1991, lo specializzando in psichiatria Alfredo Oliveira, con una visione non più legata solo ai farmaci, decise di aprire una radio gestita dai pazienti stessi e l’aiuto di una ong l’Associacion Civil La Colifata Salud Mental y Comunicacion. Oggi è conosciuta come Radio La Colifata.
La radio trasmette quasi tutti i pomeriggi per tre quattro ore. Insieme, i pazienti scelgono la scaletta di canzoni e, seduti in semicerchio su sedie e panchine di fronte alla consolle, si passano il microfono. Con Amalia la presentatrice e Gabriela l’assistente, ciascuno parla di un argomento, poi si scambiano commenti e mettono su un pezzo di musica. L’atmosfera è rilassata ma seria; è un momento di scambio di idee e di confronto costruttivo. Vista dall’esterno, la scena trasmette una sensazione di impegno civile, di partecipazione attiva, ogni voce ha un peso ed è considerata con attenzione.
Le parole di Oliveira risuonano come profetiche “ la radio aiuta a decostruire l’immaginario sulla follia e come costruzione sociale produce legami con il mondo esterno”. La radio oggi è ascoltata in tutta l’Argentina ed in parte dell’America Latina. Il successo di questa terapia è stato tale che è stata replicata in altri ospedali del mondo. Amalia, presentatrice e operatrice della ong, mi dice “ la radio è vita. Chi entra in un manicomio perde libertà e autostima ma la radio fa parlare, e parlando ci si libera e si crea autostima”
Federico è seduto accanto a me. Ha finito di parlare mi passa il microfono. Sarebbe il mio turno, ma lo guardo perplesso. Lui sorride “Non aver paura del microfono, è un amico buono, un amico vero. Dai, raccontaci qualcosa dell’Italia”.
La storia del reportage
Le foto sono state scattate da Renato Viviani nell’aprile 2019