Siria, prime elezioni dopo la caduta di Assad

Nelle prime elezioni parlamentari indirette, il volto del nuovo potere preoccupa le minoranze con l’incognita Israele

di Alessandro De Pascale

Per la prima volta dopo oltre mezzo secolo, la Siria è andata alle urne senza la famiglia Assad al potere. Ma se il volto è nuovo, il passato che rappresenta è tutto fuorché rassicurante. Le elezioni parlamentari, definite dal presidente ad interim Aḥmad al-Shara un “momento storico”, si sono tenute domenica scorsa in un Paese ancora ferito da 13 anni di guerra civile, che ha provocato 600.000 morti e 12 milioni di sfollati. Al-Shara, noto in passato come Abū Muḥammad al-Jawlānī (suo pseudonimo di guerra), ex leader jihadista di Tahrir al-Sham (Hts), è salito al potere dopo aver rovesciato Bashar al-Assad a dicembre 2024. Su di lui pendeva una taglia da 10 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti. Oggi guida il governo di transizione con un mandato di 30 mesi e avrà il controllo quasi totale del nuovo Parlamento.

Il voto in Siria c’è stato, ma non per tutti. Per l’autoproclamatosi presidente al-Shara sarebbe stato impossibile organizzare elezioni dirette visto l’elevato numero di siriani privi di documenti dopo che milioni di persone sono fuggite all’estero o sono state sfollate all’interno del Paese durante la guerra civile. Quindi niente urne popolari, ma solo collegi chiusi. A votare i 210 membri della nuova Assemblea Popolare sono stati dei delegati, selezionati e nominati da una commissione elettorale scelta dallo stesso al-Shara. Nel collegio più grande, quello di Aleppo, durante la guerra civile diventata la città più abitata della Siria, 700 grandi elettori hanno votato per assegnare 14 seggi. A Damasco, la capitale, i delegati erano 500 per 10 seggi.

I cittadini comuni non hanno quindi potuto votare. I partiti politici dell’era Assad sono stati sciolti e solo i membri dei collegi potevano candidarsi come singoli. Tra i requisiti, età minima di 25 anni, fedina penale pulita, nessun legame con il regime di Assad o con gruppi terroristici (fino al 7 luglio 2025 la Hts di al-Shara era considerato tale da Onu, Ue, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Argentina, Indonesia e Russia), vietata l’appartenenza a movimenti secessionisti o favorevoli all’intervento straniero. Secondo la legge elettorale provvisoria, approvata il 20 agosto, queste le quote minime nei collegi elettorali (e quindi anche dei potenziali possibili candidati): 70% professionisti e 30% notabili locali, di cui 20% donne e 3% di persone diversamente abili.

I poteri del nuovo Parlamento saranno limitati. Potrà approvare leggi, modificare quelle esistenti, ratificare trattati e bilanci. Ma potrà bocciare i decreti presidenziali solo con una maggioranza dei due terzi. E proprio due terzi dell’Assemblea (70 seggi su 210) verranno nominati direttamente da al-Shara, che quindi manterrà il pieno controllo sul futuro legislativo. In tre aree del Paese – Raqqa e Hassakeh (controllate dai curdi) e Sweida (dominata dai drusi) – le elezioni non si sono svolte, ufficialmente per motivi di sicurezza.

In realtà, il nuovo governo non ha ancora il controllo territoriale su queste zone. Le Forze Democratiche Siriane (Sdf), il braccio politico dei curdi del nord-est, hanno definito il voto una “farsa politica”. L’accordo con loro, nella nuova Siria e per il futuro della Rojava, è tutt’altro che definito. Ma nonostante tutto, tre candidati curdi non affiliati alle Sdf sono stati eletti ad Afrin. Secondo i dati preliminari dell’agenzia statale Sana, alle minoranze religiose ed etniche (curdi, cristiani, alauiti) sono andati appena 10 seggi. Le donne? Solo sei su 119 parlamentari eletti. Numeri che ricordano i tempi dell’era Assad: tra il 1981 e il 2024 la rappresentanza femminile in Parlamento oscillava tra il 6% e il 13% (dati dell’Unione interparlamentare, che raccoglie monitora i parlamenti nazionali di tutto il mondo).

A settembre, al-Shara si era presentato in giacca e cravatta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, promettendo una Siria “democratica e inclusiva”. Dovremo aspettare la nomina dei 70 parlamentari di sua scelta per vedere se sarà davvero così e se verrà colmato questo divario venuto fuori dalle urne. Era dal 1967 che un presidente siriano non si presentava all’Onu. Resta tesa anche la situazione con Israele, che in questi mesi ha colpito le infrastrutture militari siriane dell’era Assad, per evitare che finissero nelle mani del nuovo governo islamista.

Fonti diplomatiche parlano di negoziati in corso: Tel Aviv chiede il controllo permanente alle alture del Golan occupate dallo Stato ebraico dal 1967, di mantenere anche l’avamposto militare conquistato in questi mesi sul Monte Hermon (che si affaccia su Damasco), l’espansione della zona pattugliata dalle forze di pace delle Nazioni Unite (Undof) per ampliare quella che dovrebbe essere l’area smilitarizzata vietata alle armi pesanti e l’istituzione di un no-fly zone nell’area. Per la prima volta dagli anni ’40, tra i candidati al Parlamento siriano è apparso anche un nome inatteso: Henry Hamra, ebreo siro-americano. Un piccolo segnale, forse, di apertura simbolica in un contesto tutt’altro che pluralista.

Le elezioni del 5 ottobre segnano la fine formale dell’era Assad durata 55 anni, ma non necessariamente l’inizio di una vera democrazia. Il nuovo potere ha cambiato bandiera, non metodo: centralismo, controllo diretto e limitata rappresentanza restano i tratti distintivi anche della Siria post-Assad. Il mondo guarda, ma con occhi pieni di dubbi. L’autoproclamatosi nuovo presidente siriano al-Shara chiede la rimozione totale delle sanzioni internazionali per la Siria. Al momento revocate solo in parte. Mentre all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in una giravolta della storia, stringeva la mano in doppio petto all’ex capo della Cia, David Petraeus, che nel 2003 lo aveva fatto arrestare in Iraq perché ritenuto un terrorista affiliato ad al-Qaeda.

Nella foto in copertina, il presidente siriano Ahmad al-Sharaa ©Mohammad Bash/Shutterstock.com

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