Sotto l’Artico una bomba climatica

Grandi masse di CO2 rischiano di liberarsi per lo sciogliersi dei ghiacci. Il difficile rapporto fra scienza e politica

di Maurizio Sacchi

Grandi masse di CO2, il gas-serra più nocivo all’ambiente, sarebbero pronte a liberarsi dall’Artico, in seguimento allo sciogliersi delle zone glaciali. Creando così un’accelerazione del riscaldamento globale, in un circolo vizioso che si autoalimenta, e rendendo ancor più rapido il degradarsi dell’equilibrio ecologico che ci sostiene.

Il fenomeno, ripreso ora da alcuni media generalisti, è allo studio da più di 15 anni negli ambienti scientifici. Le biomasse alla base di questa grande riserva di metano sono praterie e boschi di antichissima data, che sorgevano sulle rive dei continenti intorno all’Artico, coperte, nel succedersi delle ere geologiche e climatiche, da masse di ghiaccio, che ne hanno causato la lenta decomposizione, intrappolando sotto alla coltre bianca, o nel permafrost sottomarino, i gas derivati. Un fenomeno noto empiricamente da sempre: la torba che viene utilizzata come combustibile in alcune zone del Nord Europa ed Asia, non è che una parte di quelle antiche praterie in decomposizione.

Ora, con il discioglimento progressivo delle calotte polari, e con l’innalzarsi delle temperature degli oceani, questi grandi depositi di gas affiorano alla superficie, liberando nell’atmosfera il loro effetto-serra. Il fenomeno si evidenzia attraverso manifestazioni di tipo carsico: cioè come fiumi sotterranei, che emergono qui e là nella banchisa, formando pozze e laghi,  gorgoglianti per le bolle di gas che se ne sprigionano. Questo il fenomeno: sulla sua portata, e sul reale impatto che esso ha in tempi brevi o medi, è però ancora aperto il dibattito.

Ricerca scientifica

Durante la spedizione scientifica internazionale Swerus-C3 del 2014: la nave rompighiaccio svedese Oden ha percorso circa 6mila chilometri attraverso il Mar Glaciale Artico, partendo dalla città di Tromsø nell’estremo Nord della Norvegia, per arrivare a Barrow, in Alaska. Lungo il viaggio, i ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di punti critici, nei Mari di Laptev, dei Ciukci e della Siberia orientale, in cui le emissioni di metano arrivano a un massimo  25 volte superiore alla media,.

“Le fonti di metano antropiche, come le risaie, l’industria dei combustibili fossili e il bestiame, hanno già più che raddoppiato la concentrazione di metano nell’atmosfera rispetto ai livelli preindustriali  (…) La quantità di metano idrato contenuta nel permafrost non è ben nota, ma non ci vorrebbe troppo metano, diciamo 60 Gton C rilasciati in 100 anni, per raddoppiare nuovamente il metano atmosferico. Quando la torba è stata congelata per migliaia di anni, contiene ancora popolazioni vitali di batteri metanotrofici [Rivkina et al., 2004] che iniziano a convertire la torba in CO2 e CH4. Neanche troppo difficile immaginare un apporto  dalla torba di 60 Gton C in 100 anni.” Questo scriveva RealClimate ancora il 12 dicembre 2005, col titolo: “Methane hydrates and global warming”.

In altre parole, il potenziale effetto della liberazione di questo gas sarebbe pari a  tutto quello prodotto dalla Rivoluzione industriale ad oggi. Unito a tutti i già noti, questo pericolo dovrebbe accelerare e rendere ineludibile la presa di coscienza da parte dei governi e delle popolazioni sull’urgenza di correre ai ripari.  Per ora, però, prevale una visione miope e populista del tema. Affrontare con una visione più strategica e lungimirante il problema, e mettere in atto le contromisure, ha un costo: in termini di possibile aumento della spesa pubblica, di un rallentamento della produzione industriale, di ostacolo agli spostamenti di persone e merci. E i politici che si preoccupano del consenso a breve orizzonte temporale sono poco disposti a rischiare l’impopolarità in favore di una visione illuminata. Anche di recente, il fronte di Paesi, Stati uniti in testa, che negano o sottovalutano la minaccia, ha definito “catastrofistiche” le previsioni che da molti anni provengono dal mondo della scienza. 

Il rapporto tra politica e scienza

Un problema non di poco conto, quello del rapporto fra politica e scienza: per sua stessa natura, la scienza si basa sul dubbio sistematico, e sull’essere esposta alla confutazione. Per questo, un numero anche esiguo, di studi che contraddicano ogni teoria è sempre presente, anche su questo tema. Un esempio può essere quello secondo cui, a fronte di un riscaldamento del Polo artico, vi sarebbe un progressivo raffreddamento del Polo antartico, su cui esistono molto specializzati e, per un profano, difficilmente decifrabili studi. Ma anche qui il dibattito è ancora aperto, e sulla base di rilevazioni e modelli teorici, c’è chi sostiene che il riscaldamento gobale colpisca anche l’Antartide. 

La politica dovrebbe tradurre in azione dei governi, in tempi dettati dalle necessità, materiali o percepite dalla popolazione, le indicazioni che vengono dalla scienza. E non può darsi i tempi che alla ricerca pura sono concessi. Il consenso su azioni così drastiche non può che passare per la presa di coscienza da parte di chi elegge, o sostiene in qualunque forma, chi lo governa. Da questo punto di vista, l’ “effetto Greta” è stata una vera, e non tanto piccola, rivoluzione. Il punto più interessante della quale è forse proprio il rimandare alle conclusioni degli scienziati. Ovvero, di fondare le decisioni importanti non più sul consenso immediato, ma su basi oggettive e lungimiranti.

Non a caso, la generazione dei giovanissimi è in grado di recepire subito questa necessità: l’orizzonte

temporale che li riguarda è già investito dal problema, e farà per loro una differenza reale se si correrà ai ripari in tempo. Ecco perché i Fridays for future hanno avuto tanto successo a livello planetario; e perché qui non si siano create immediatamente le fratture fra Stati sviluppati e non, fra “occidentali” e Altri, fra religioni o ideologie. Più che infantile idealismo, un realismo lungimirante. C’è solo da sperare che questa carica positiva non si spenga di fronte alle emergenze di corto periodo.

Ma forse avverrà quello che si disse quando la visione di Tolomeo fu soppiantata da quella di Copernico. Uno storico della scienza disse che non furono i tolemaici a convertirsi alla visione eliocentrista, convinti dall’evidenza.  Semplicemente, la generazione di chi credeva alla Terra al centro dell’universo morì; e fu sostituita dalla nuova, che convinta dai fatti e dagli studi, fu tutta copernicana. Se non sarà troppo tardi.

Nell’immagine in evidenza: Photo by Martin Sanchez on Unsplash. Nel testo, il fiume Ob nella Siberia Occidentale trasporta metano disciolto verso l’Oceano Artico, il logo di RealClimate e una manifestazione di giovani ambientalisti

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