Trappola birmana

Svista per la CGIL che acquista gilet fatti in Myanmar e per il Corriere che pubblicizza una ditta collusa con i golpisti

di Alessandro De Pascale ed Emanuele Giordana

“È stata una sorpresa anche per me, trovare dei nostri gilet ‘Made in Myanmar’, ma lo faremo presente alla ditta che ce li ha forniti”, assicura a Il Manifesto il Responsabile per le Politiche Europee e Internazionali della CGIL, Salvatore Marra. Tutto inizia con delle foto che ci sono pervenute. Mostrano gilet smanicati rossi con il logo della più antica organizzazione del lavoro esistente in Italia.

A realizzarli, almeno sulla base dell’apposita targhetta di cartoncino esterna, la Clique Abbigliamento di Codogno (Lo). Mentre le etichette cucite all’interno riportano i dati della ditta svedese New Wave Mode AB, la certificazione di tracciabilità e sostenibilità del tessuto Oeko-Tex e, come detto, dove sono stati prodotti: “Made in Myanmar”.

Nazione, quest’ultima, dove dal primo febbraio 2021 hanno preso il potere con un colpo di stato i militari sospendendo la democrazia. Nel settore dell’abbigliamento, nell’ex Birmania, “tutti i contratti sono stati cancellati: si lavora oltre 60 ore la settimana, gli straordinari sono obbligatori e non retribuiti, il salario è di appena 1,78 euro al giorno, i sindacati sono stati vietati e per tutti i loro leader è stato emesso un mandato di cattura”, confermò a Il Manifesto l’estate scorsa Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione Italia-Birmania Insieme, per l’inchiesta “Gli schiavi del telaio”.

Un problema noto da tempo anche al Governo italiano: proprio Italia-Birmania Insieme nell’aprile 2023 ha presentato un’istanza al punto di contatto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy per segnalare tutti i marchi di abbigliamento italiani che continuano a produrre i loro capi sporchi del sangue birmano.

Da un controllo preliminare effettuato, non tutti questi nuovi gilet estivi ordinati dalla CGIL sono “Made in Myanmar”: “Alcuni sono stati prodotti in Bangladesh o in Portogallo”. Inoltre il sindacato li ha acquistati da brand europei, “ma approfondiremo la questione”, assicura ancora Marra a Il Manifesto. “Anche perché come CGIL stiamo sostenendo con grande forza la direttiva europea sulla due diligence, perché riteniamo fondamentale che le multinazionali con sede in Europa non vadano in altri Paesi che usano pratiche scorrette come questa del lavoro minorile o addirittura schiavo, come nel caso del Myanmar”.

Di svista in svista anche il Corriere della Sera è cascato nella trappola birmana. Aprendo le pagine del Corrierone dal Myanmar si incappa in diverse pubblicità birmane postate da una piattaforma digitale. Niente di male se si tratta di Pediasure, multinazionale americana che pubblicizza prodotti per la crescita infantile che si possono acquistare anche in Myanmar.

Il problema è che sulle pagine “birmane” del Corriere, quelle che leggono gli italiani in Myanmar, campeggia talvolta anche la pubblicità di Atom, società nell’occhio del ciclone. Advancing Telecommunications of Myanmar è un’azienda di telecomunicazioni birmane che ha rilevato Telenor Myanmar, ditta norvegese controllata dal governo di Oslo. Dopo il golpe del 2021 la giunta militare voleva che Telenor Myanmar attivasse apparecchiature di intercettazione, sorveglianza e monitoraggio sui suoi 16 milioni di clienti.

Nel luglio di quell’anno Telenor decide di vendere Telenor Myanmar alla libanese M1 Group, che però ora condivide la proprietà con Shwe Byain Phyu, conglomerato birmano legato ai generali (come quasi tutta l’economia locale). Dopo il trasferimento nel marzo 2022, Telenor Myanmar è stata rinominata Atom. Ovvio che controllare cosa vendono le piattaforme digitali è difficile. Ma non fa piacere in Myanmar leggere sul Corriere la pubblicità di telefoni sotto controllo.
 
Pubblicato anche su Il Manifesto

Nella foto in copertina, l’etichetta dei gilet della CGIL “Made in Myanmar”

 

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