Trump bis: quali effetti sulla pace mondiale?

Cosa succederà se l'attuale Presidente Usa verrà rieletto? Una panoramica su alcuni possibili scenari

di Maurizio Sacchi

Nel giro di pochi mesi avremo una risposta che condizionerà in modo decisivo l’andamento del Pianeta per i successivi 4 anni, ovvero se Donald Trump sarà o no rieletto a quella che resta, nonostante tutto, la prima potenza mondiale. Al momento, è principalmente l’apparente boom dell’economia a stelle e strisce a giocare a favore del presidente in carica. Il tasso di disoccupazione è ai suoi minimi storici, mentre le borse mostrano segnali di ascesa. Gli esperti e gli analisti, che all’inizio della guerra commerciale avevano visto nelle tariffe e nelle limitazioni al commercio un fattore frenante del grande meccanismo dell’economia e dell’industria globalizzata, tacciono. E le previsioni di un anno fa, che vedevano castigato per primo il consumatore di reddito medio-basso americano, sembrano smentite dai fatti.

“I mercati finanziari si cullano beati nella negazione delle molte prevedibili crisi globali che potrebbero arrivare al termine di quest’anno, in particolare nei mesi precedenti le elezioni presidenziali statunitensi.” Nouriel Rubini, scrive così su Project Syndicate (una rete internazionale di media che pubblica e diffonde commenti e analisi su una varietà di importanti argomenti globali. Tutte le opinioni sono pubblicate sul sito web di Project Syndicate, ma sono anche distribuite per la stampa a una rete di pubblicazioni cartacee). Qui l’autrice fa un accenno ai rischi sempre più evidenti associati ai cambiamenti climatici e aggiunge che “almeno quattro Paesi vogliono destabilizzare gli Stati Uniti dall’interno”.

Ma il successo dell’economia americana sarebbe solo apparente:  “Il buon momento di Sanders riflette il desiderio di soluzioni radicali a gravi problemi economici strutturali. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, l’economia americana aveva visto una crescita costante del Pil, e i salari per tutti i lavoratori – indipendentemente dall’istruzione – sono cresciuti in media di oltre il 2% all’anno. Ma oggi non è più così”.

“Negli ultimi quattro decenni, la crescita della produzione industriale è stata scarsa, la crescita economica generale ha rallentato, e una quota crescente dei guadagni è andata ai proprietari di capitali e ai vertici della scala sociale. Nel frattempo, i salari medi sono rimasti stagnanti, e i salari reali (adeguati all’inflazione) dei lavoratori, sia dotati di grado istruzione superiore che inferiore, sono significativamente diminuiti. Poche aziende (e i loro proprietari) dominano gran parte dell’economia. Il primo 0,1% della popolazione, nella scala della distribuzione del reddito cattura oltre l’11% del reddito nazionale, rispetto a circa il 2,5% negli anni ’70.”

Il tasso di disoccupazione attuale e che rappresenta uno dei vanti della presidenza Trump, nasconde un mercato del lavoro che, mentre non ha visto un’aumento degli addetti alla produzione industriale, come promesso nella campagna elettorale precedente, ha visto crescere il numero dei lavoratori precari, con bassi salari orari, come riflesso dal salario reale, e dalle condizioni contrattuali assolutamente precarie. Su questa trasformazione del lavoro in Usa, e non solo, torneremo più avanti.

Sono gli stessi mercati a descrivere come precario il futuro non troppo remoto dell’economia degli Stati Uniti. Un dato rivelatore è l’inversione fra i rendimenti a corto termine e quelli a lungo termine dei buoni del tesoro americani. Generalmente, questa rendita dovrebbe essere tanto maggiore quanto più lunga la loro scadenza. Negli ultimi mesi, a fronte del boom della borsa di Wall Street, si è invece verificato il contrario, con tassi di rendimento migliori per i titoli a uno o due anni, rispetto a quelli a dieci anni. Tradotto in termini più immediati, questo dato significa che vi è più fiducia in una crescita nell’anno prossimo, che in ciò che avverrà dopo nell’economia, non solo americana.  E si può esprimere in modo più esplicito nella previsione di una recessione e di una crisi alle porte.

Un’altro segno della debolezza del modello di governo Trump tocca da vicino la tematica delle guerre e dei conflitti. Ovvero la rinuncia al ruolo di gendarme/custode della democrazia, in favore di una politica estera basata su sanzioni e tariffe e dichiaratamente contraria a dirottare risorse economiche nel mantenimento di contingenti militari fissi nei tanti teatri di conflitto del mondo. Una misura che certamente nel corto periodo alleggerisce di un costo le casse federali, ma che comporta la perdita di controllo nelle aree strategiche, prime fra tutte quelle della produzione di idrocarburi: gli Stati del Golfo e il Medio Oriente in generale, il Nord Africa e anche il Venezuela. In tutte queste aree, si pensava di delegare ad alleati regionali la difesa degli interessi economici dell’industria petrolifera nazionale.

Un aspetto da non trascurare a livello propagandistico è quello che gli Usa producono internamente l’89 percento del loro consumo di petrolio e gas. Secondo l’Eia, Enery information administration, l’ente ufficiale Usa per l’energia, “nel 2018, le importazioni nette statunitensi (importazioni meno esportazioni) di petrolio da Paesi stranieri sono state in media di circa 2,34 milioni di barili al giorno, pari a circa l’11% del consumo di petrolio degli Stati Uniti. La percentuale più bassa dal 1957.” Il dato include petrolio greggio e prodotti petroliferi:  benzina, gasolio, olio combustibile, carburante per jet, materie prime chimiche, asfalto, biocarburanti (etanolo e biodiesel) e altri prodotti. Questa apparente autarchia felice si scontra però con una realtà opposta.

La produzione interna di petrolio è aumentata grazie alla nuova tecnologia del fracking, che ha ricevuto un forte impulso sotto Trump. Secondo l’Eia: “…La fratturazione idraulica, o fracking, ha aperto allo sfruttamento più gas naturale, ma la tecnologia ha aggiunto costi al processo di estrazione petrolifera. L’olio di scisto, che deriva dal fracking,  costa più del petrolio convenzionale da estrarre, da un costo di produzione minimo di 40 $  a oltre 90 $ al barile. Il costo del petrolio convenzionale varia così tanto che l’Arabia Saudita può produrre a meno di $ 10 al barile, mentre i costi mondiali variano da $ 30 a $ 40 al barile”. 

La redditività e competitività della produzione interna è quindi collegata a un prezzo internazionale del petrolio relativamente alto. La presenza militare degli Usa nelle aree di produzione mondiale ha permesso fino ad ora di esercitare un controllo, diretto o indiretto, sui prezzi internazionali. E la strategia militare americana degli anni precedenti a Trump è stata ispirata da questa necessità, come testimoniano sia la prima che la seconda guerra con l’Iraq, e in generale la presenza e stretta alleanza militare con l’Arabia Saudita, e la politica di embargo nei confronti dell’Iran e del suo petrolio; o più recentemente, nei confronti del Venezuela.

Il disimpegno militare diretto, lasciando alle potenze regionali la guerra combattuta sul campo, significa anche il crescere della presenza militare di Russia, Turchia, Arabia Saudita, di Israele e dello stesso Iran nelle zone di produzione; con guerre aperte in tutti i punti d’attrito, a partire dalla Siria, passando per la Libia. E di conflitti interni violenti, come nel caso di Yemen, Iraq, Libano. Questo indica che il fracking potrebbe essere reso obsoleto semplicemente da prezzi internazionali troppo inferiori ai costi inevitabili di questa poco sostenibile innovazione.

Anche da parte democratica, il costo di mantenere un ruolo imperiale degli Usa sullo scenario mondiale appare come insostenibile. Nel caso di Joe Biden, che prima dei primi risultati delle primarie per la scelta del candidato anti-Trump veniva presentato come il favorito, il Washington Post rivela una testimonianza relativa al suo mandato di vicepresidente di Obama, relativa alla presenza americana in Afghanistan. Dopo aver scartato un piano che prevedeva il rafforzamento dell’esercito e delle forze dell’ordine afghane, accompagnato da interventi di sostegno alla società civile, per permettere un’uscita dalla presenza militare e una transizione a una indipendenza democratica e stabile, perché troppo costoso, secondo la ricostruzione del quotidiano di Washington, Biden accettò un piano esclusivamente militare di contenimento dei talebani e di Al Quaeda, ma si oppose a un aumento significativo dello sforzo bellico, come richiesto da alcuni vertici del Pentagono.

“Non rimanderò il mio ragazzo lì a rischiare la vita per i diritti delle donne (afghane)!” urlò l’ex vicepresidente all’ex inviato speciale in Afghanistan e Pakistan Richard Holbrooke, durante un incontro tra i due nel 2010. “Non funzionerà, non è per quello che siamo lì”. Il figlio di Biden, Beau, era un membro della Guardia Nazionale schierata in Iraq nel 2009. E la imbarazzante esplosione venne in risposta alla domanda su chi avrebbe difeso i diritti che teoricamente avrebbero dovuto essere ristabiliti dall’intervento armato. Biden parrebbe al momento tagliato fuori dalla corsa alla Casa Bianca, ma il conflitto fra una visione imperiale e una sovranista della politica internazionale a stelle e strisce resta sul campo, e nessuna delle due pare sostenibile. 

I segnali di una possibile crisi sono quindi nell’aria, e non solo in quell’inversione di valori fra titoli a breve e lunga scadenza. Se la necessità di un cambiamento radicale di rotta dovesse essere percepita, l’immagine vincente con cui Trump spera di presentarsi agli elettori potdebbe non essere più la garanzia del rinnovo del mandato. 

Ma qui si apre il difficile discorso della comunicazione, e dei meccanismi mediatici che possono, o no, orientare le scelte degli elettori. Con il ben noto corollario che i segnali semplici e diretti, che oggi il presidente in carica può mostrare, tendono a passare con facilità nel nuovo modo di fare campagna, mentre ciò che richiede una visione più complessa, o lungimiranza, o trova una efficace sintesi e strategia comunicativa, oppure fatica ad uscire dalle realtà urbane e conquistare il voto delle decisive aree del Middle East e Middle West. Che sia Sanders, o la “verde” Elizabeth Warren, o l’outsider Pete Guttigieg, o ancora l’ex sindaco di New York e multimiliardario Bloomberg a prevalere, un’altra condizione perché la conferma di Donald Trump non avvenga è che il campo si mantenga unito, con tutti i contendenti impegnati a sostenere lealmente chi emergerà dai caucus. 

Per quanto riguarda la pace e la guerra, i democratici dovranno esprimere una linea che superi sia l’insostenibile ruolo imperiale, che quello solo affaristico e sovranista inaugurato da Trump. E che si definisca una strategia alternativa nei confronti della Cina, che per ora si è caratterizzata come una guerra, se sia pure , per ora, solo commerciale.

 

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