Trump / Xi: più tregua che pace

Al summit G20 In Giappone Cina e Usa hanno abbassato i toni. Ma la guerra commerciale non è affatto finita. Analisi del dopo Osaka

di Maurizio Sacchi

L’attesissimo incontro dello scorso fine settimana fra Donald Trump e il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, avvenuto a Osaka nell’ambito del summit fra le più grandi economie del mondo, ha prodotto senz’altro una tregua nella guerra commerciale che mette di fronte le due superpotenze.

Innanzitutto le tariffe aggiuntive Usa, che sarebbero dovute

Osaka G20 summit 2019

scattare da subito in caso di mancato accordo, e a cui sarebbero seguite misure speculari da parte di Pechino, sono state scongiurate. Inoltre alla Huawei, il colosso multinazionale cinese delle comunicazioni, è stato permesso di acquisire, da produttori americani o loro alleati, i componenti necessari alla produzione, purché non in grado di mettere a rischio la sicurezza nazionale americana. Dove passi il limite di questa clausola è però  tutto da definire. Trump stesso ha dichiarato di aver ceduto alle pressioni degli industriali dell’ hi-tech di casa propria, che dall’economia globale dipendono quasi totalmente. E ora starà alle nutrite squadre tecniche di negoziazione delle due parti dare sostanza a questo accordo.

Sul piano formale, l’incontro è stato cordiale e prolungato. I due presidenti si sono scambiati espressioni di stima e di amicizia, e nelle dichiarazioni ufficiali specie da parte cinese, si sottolinea l’importanza della cooperazione fra Paesi, e sui possibili danni del confronto e dello scontro fra economie. Ma già tutti gli analisti indicano che i problemi di fondo rimangono sul tavolo, e a detta di molti l’incertezza sul futuro dell’economia mondiale, e sugli stessi equilibri strategici internazionali, è destinata a permanere. “Questo accordo temporaneo fa ben poco per risolvere i conflitti di fondo che hanno fatto saltare i colloqui di maggio o per dare una soluzione concordata al caso Huawei,” è il commento ad esempio dell’Eurasia Group, un think-tank di politica e economia internazionale .

I punti di conflitto: la fine dell’intervento pubblico sull’industria cinese; le questioni legate al tema della sicurezza nazionale, con i limiti che esse impongono sul commercio legato all’alta tecnologia, non solo su quella legata agli armamenti; condizioni del tutto paritarie per le industrie americane che volessero investire in Cina, sono rimasti irrisolti. E una eventuale soluzione, che comporterebbe un rivolgimento totale nella stessa società cinese, non può avvenire in tempi brevi, né è possibile da accettare o da attuare da parte dell’attuale governo e sistema sociale dell’Impero di mezzo. Si deve dunque parlare di una tregua, e non certo di una pace, e tutti i nodi di fondo rimangono da sciogliere.

“Mentre il vertice di Osaka sarà quasi certamente considerata una vittoria per Pechino”, ha commentato Ma Zhengang , ex ambasciatore cinese in Gran Bretagna e presidente del China Institute of International Studies, “ i principali leader della Cina sono rimasti scettici sull’eventualità che Trump mantenga i propri impegni, data l’impressione di inaffidabilità causata dai suoi continui mutamenti di rotta”. “Abbiamo assistito a cambiamenti fondamentali nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti negli ultimi mesi, con il consenso bipartisan negli Stati Uniti sulla necessità di frenare l’ascesa della Cina. Non sono affatto ottimista riguardo alle prospettive dei negoziati commerciali o dei nostri rapporti”.

Frenare l’ascesa della Cina: su questo è difficile che Pechino sia mai d’accordo. Ma è difficile pensare che gli Usa cambino rotta, visto che anche il Partito democratico a stelle e strisce su questo non è in dissenso con i falchi dell’amministrazione Trump. Scriveva ancora in aprile il Financial Times: “Le due grandi questioni sono il commercio con la Cina, e la nuova regolamentazione delle grandi aziende tecnologiche. Su entrambi i temi, le due parti sono più insieme che separate, e l’Amministrazione e il Congresso sono più in armonia che in dissonanza con Trump”.

Che anche l’opposizione democratica di Washington, su tutto il resto intransigente con Donald Trump, appoggi una politica di scontro vìs-a-vìs con Pechino, indica che la strategia di contenimento del colosso asiatico, volta a scongiurare un sorpasso nei prossimi vent’anni come leader mondiale, ha sfondato anche nell’opinione pubblica americana, e anche a costo di frenare l’economia nel breve periodo. L’esempio che Trump ha in mente, e che spesso rievoca, è quello dell’assedio all’Urss da parte di Ronald Reagan, messo in atto soprattutto con l’escalation militare causata dalle cosiddette Guerre stellari. Obbligare Mosca a una rincorsa  sul piano della spesa militare, e sottoporla a uno sforzo economico e industriale non sostenibile, viene vista come la mossa che fece collassare definitivamente il blocco del Patto di Varsavia.

Ora, una diversa pressione commerciale sembra proporsi qualcosa di simile: frenando l’ascesa della Cina, ponendo condizioni che, se accolte, ne frantumerebbero l’attuale sistema politico-economico, il disegno strategico di Washington, ampiamente condiviso oltre Oceano, pare auspicare e incoraggiare un collasso del potere politico attuale di Pechino. Per lasciare spazio a un altro enorme mercato affidato solo alle regole del libero scambio. Come nel caso della ex Unione sovietica, il tema della mancanza di democrazia accompagna le rivendicazioni americane. Anche se  le libertà civili non vengono necessariamente con l’apertura totale al libero mercato e con libere elezioni, com’è abbastanza visibile in tutti i Paesi che ormai da decenni sono usciti dal cosiddetto “socialismo reale”. Ma l’interesse nazionale (questo è anche il nome della rivista economica dell’area Trump) sembra aver sostituito, non solo in America, e non solo nei partiti conservatori, il mito precedente della globalizzazione.

 

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