di Lucia Frigo
Inizia una settimana decisamente difficile per Theresa May, attuale primo ministro incaricato di guidare il Regno Unito attraverso il maremoto della Brexit. Primo ministro attuale, sì, perché la sua permanenza a Downing Street sembra davvero appesa a un filo, ora che a chiederne le dimissioni non sono solo i cartelli di alcuni manifestanti ma anche numerosi membri del suo stesso partito.
Sabato scorso forse più di un milione di persone si sono riversate nelle strade di Londra, chiedendo a gran voce il ritorno della decisione sulla Brexit nelle mani del popolo, attraverso un secondo referendum. La marcia “Put it to the People” (rimetti [la decisione] alla gente) nasceva proprio in risposta alla premier inglese, la quale aveva affermato in un discorso alla nazione di non ritenere che il popolo del regno desiderasse una nuova consultazione. Una dichiarazione che ad alcuni era parsa sprezzante, o quantomeno cieca rispetto ad un’altra iniziativa partita dal basso: la petizione anti-Brexit che è diventata virale su internet durante la scorsa settimana, e che oggi ha superato la soglia dei 5 milioni di firme. Una raccolta firme che, in quanto caricata nel sito ufficiale del governo, dovrà essere discussa dal parlamento inglese: e pur senza vincolarlo, esprime una chiara insofferenza rispetto al lungo dibattito in atto a Westminster sull’approvazione o meno dell’accordo con l’UE proposto dalla May.
La manifestazione di Londra si presenta quindi come una vera
sollevazione popolare, nella quale il messaggio è stato molto chiaro: “Il primo ministro dichiara di parlare a nome del Regno Unito” ha detto Tony Walker, vicepresidente dei Laburisti “Ma guardi alla grande folla di oggi. Questo è il popolo. Theresa May, Lei non parla a nome nostro”. Assieme a lui, esponenti di spicco di diversi partiti sono scesi in piazza tra la gente: il sindaco di Londra, sempre laburista; ma anche Lord Heseltine, ex conservatore e vice primo ministro, nonché il primo ministro della Scozia, Nicola Sturgeon. Pesanti però anche le assenze, come quella di James Corden: cori indirizzati al capo dei laburisti non hanno fatto altro che sottolineare la forte critica che la sinistra anti Brexit da sempre gli rivolge: il fatto di non schierarsi con convinzione contro la Brexit, forse per paura di perdere consensi.
I conservatori chiedono le dimissioni
Ma se il malcontento da parte dell’opposizione non è una novità, a far tremare la posizione della May sono le richieste di dimissioni provenienti dall’interno del suo partito. Negli ultimi giorni moltissimi conservatori hanno dichiarato che il Paese ha bisogno di un nuovo leader, e parecchie supposizioni sono state fatte su chi sia il candidato più probabile: i nomi variano da quello di David Lindington, attuale vicepresidente dei conservatori, e Micheal Gove, che però per il momento smentiscono; entrambi si sono sempre detti favorevoli all’opzione “soft Brexit”. Ed è proprio questo punto – la natura dell’imminente Brexit – a far spaccare il partito: mentre la premier continua a insistere sull’importanza di un accordo con l’Unione Europea, i “conservatori ribelli” guidati da Boris Johnson invocano un’hard Brexit, veloce e senza accordi. E così, anche l’incontro di ieri sera che doveva servire a riunificare il fronte di destra si è concluso con un nulla di fatto.
Insomma, anche se il voto di fiducia del dicembre scorso pareva aver assicurato a Theresa May la leadership fino al dicembre 2019, questo scenario sembra di giorno in giorno meno probabile. Con i suoi sempre più scarsi sostenitori, la May in settimana proporrà al Parlamento di votare per la terza volta sul testo che ha negoziato con l’UE. Se anche questa settimana la sua proposta non sarà accolta, ci si aspettano le dimissioni. E mentre manifestanti e parlamentari si preparano al peggio, la data sul calendario (ufficialmente, ancora il 29 marzo) si fa sempre più drammaticamente vicina.