Ucraina. Un brutto inizio. Il punto

Il bilancio della settimana sui conflitti che attraversano il pianeta
di Raffaele Crocco

 

Si comincia con uno sgarbo: l’assenza di Putin. Il Presidente russo non è andato ad Istanbul ad incontrare il suo omologo Zelensky in quello che doveva essere il “primo round” del negoziato verso la pace. Il capo del Cremlino continua a non riconoscere Zelensky come legittimo Presidente dell’Ucraina. La cosa ha indispettito il Presidente statunitense Trump, che spingeva per un incontro fra i due, tanto da dirsi disposto a volare anch’egli in Turchia. È stato l’ennesimo schiaffo per il neo-vecchio Presidente statunitense, che non capisce – come quasi ogni altra cancelleria europea o nordamericana – che la postura di Putin ha radici e anima profonde. Per il leader russo, semplicemente l’Ucraina non deve esistere. Nella sua visione del Mondo, quella terra è storicamente una colonia russa, che non ha alcuna ragione di indipendenza da Mosca. Quella di Putin è, nei fatti, una guerra coloniale e Zelensky o qualunque altro presidente eletto a Kiev non avrà mai, per Putin e per l’attuale gruppo dirigente russo, legittimità.

Questo significa che non ci sarà mai pace? Non necessariamente. I due Paesi, dopo 1.176 giorni di guerra, sono con il fiato cortissimo. L’Ucraina continua a difendersi sul terreno, resistendo alla pressione delle forze armate russe. Ha, però, praticamente bruciato sul campo di battaglia un’intera generazione ed il Paese non ha più infrastrutture, economia, agricoltura. La Russia è economicamente disastrata, ben al di là delle dichiarazioni ufficiali. Dipende dalla propria economia di guerra, che è incentrata sulla capacità di vendita di petrolio e gas. Il crollo dei prezzi sul mercato internazionale ha reso tutto più fragile. In più, la macchina militare russa – particolare analizzato da molti esperti – mostra continuamente i propri limiti in termini di efficienza, linee di comando e logistica. Per queste ragioni i colloqui in Turchia, per quanto condotti da delegazioni “minori”, ci saranno e potrebbero portare ad un qualche risultato positivo. Sarà la necessità della pace, più che la volontà di pace, a guidare i negoziatori.

Necessità di pace che emerge ovunque nel Mondo, alla prese con il Risiko globale. In Libia sono tornati a spararsi addosso. Quasi 100 i morti in poche ore, dopo l’uccisione del capo delle milizie Ghaniwa. Si rischia la guerra civile, con la beffa per l’Italia di vedere arrestato come criminale di guerra il generale Almasri. È il torturatore libico che, dopo l’arresto su richiesta della Corte dell’Aja, il governo Meloni aveva deciso di rimpatriare in Libia in fretta e furia. Lì, allora, era stato accolto con tutti gli onori. Ora rischia di essere catturato.

Molto più ad Est, in Asia, dal 10 maggio sembra reggere il cessate il fuoco fra India e Pakistan. Lo scontro fra i due Paesi è iniziato nel 1947, con ben 4 guerre in questi decenni. Si combatte per avere il controllo totale del Kashmir, attualmente diviso tra India, Pakistan e Cina. La nuova crisi è iniziata per un attacco terroristico firmato dal gruppo Fronte della Resistenza (TRF), il 22 aprile 2025, a Pahalgam, nell’area amministrata dall’India. Erano morte 26 persone. Dopo un nutrito scambio di colpi e attacchi di aerei e droni, i due Paesi hanno raggiunto un’intesa per l’ennesima tregua. Contemporaneamente, è iniziato il simultaneo e intenso lavoro di propaganda per dichiararsi vincitori agli occhi del Mondo e della propria opinione pubblica. Sono molti ad essere scettici sul futuro del cessate il fuoco.

E scettici molti lo sono sul futuro di Gaza. Gli attacchi israeliani proseguono, il numero delle vittime civili ha sfondato il tetto di 60mila. Da parte del governo di Tel Aviv restano molte ombre sul futuro del territorio, che non appartiene ad Israele. Molti dirigenti israeliani insistono per un’occupazione permanente, cacciando i palestinesi. Altri propongono un governo transitorio a guida statunitense, sino alla completa smilitarizzazione dell’area e al ripristino di un governo palestinese. Ipotesi che non fermano bombe e proiettili e che non danno da mangiare ad una popolazione messa in ginocchio dalla decisione di Israele di chiudere le porte all’arrivo e alla distribuzione degli aiuti alimentari. Intanto, gli yemeniti Houthi continuano la loro campagna militare in aiuto ai palestinesi: in settimana hanno lanciato missili contro Tel Aviv. Sono stati intercettati.

Poco distante, gli equilibri politici di Iraq, Iran e Siria sono stati messi in gioco dalla decisione del PKK, l’organizzazione indipendentista curda, di sciogliersi. L’annuncio è stato dato il 12 maggio 2025. “Grazie alla lotta armata – hanno detto i dirigenti – siamo ora arrivati al punto di poter risolvere la questione curda in modo democratico”. Una dichiarazione che ha rafforzato la posizione del presidente turco Erdogan, che ripropone il modello di Patto Nazionale lanciato da Ataturk negli anni ‘20 del ‘900 e si propone ora come garante degli equilibri di quella parte di Asia. Il Pkk era in guerra contro la Turchia dal 1984, in nome di un Kurdistan finalmente indipendente. Una guerra, però, che ha sempre coinvolto anche gli altri tre Paesi che ospitano il popolo curdo: 100milioni di individui senza patria. La situazione politica è differente in ognuno di questi Stati, con livelli diversi di autonomia concessa ai curdi e con scontri fra organizzazioni. In Siria, il braccio locale del Pkk, il YPG esce indebolito dalla scelta del disarmo. L’organizzazione, che abbiamo conosciuto per la lotta all’Isis, ha le spalle al muro: deve scegliere se accettare di essere integrato nell’esercito siriano o mettersi contro Damasco e Ankara. YPG chiedeva una sorta di federalismo e su questo sperava nell’appoggio di Trump. Difficile, però, capire come muoverà le pedine l’attuale capo della Casa Bianca.

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