Un 4 Novembre contro la guerra

Festeggiamo questa data per una vittoria. Dovremmo celebrarla per ricordare la tragicità assassina dei conflitti e la stupida retorica che li  accompagna

di Raffaele Crocco

C’è stato un giorno in cui un esercito, l’esercito di uno Stato sovrano, ha varcato un fiume, occupando la terra di un altro Stato sovrano. Quell’esercito era in quella terra di altri, in nome della “liberazione dei propri fratelli e delle proprie terre”. Era lì cioè per riportare a casa – questo diceva – chi apparteneva alla stessa storia, alla medesima lingua, all’uguale cultura. E la guerra fu lunga e aspra, perché chi si difendeva non voleva cedere pezzi di quello che considerava legittimamente il proprio Paese, non voleva rinunciare a quella che riteneva la propria storia.

Sembra la storia di questi mesi. Pare il racconto della Russia di Putin che invade l’Ucraina. Invece, stiamo parlando dell’Italia di Vittorio Emanuele III che invase l’Austria Ungheria nel 1915, in nome dell’irredentismo del Trentino e della Venezia Giulia, cioè per “liberare gli italiani oppressi”.

Quella storia lontana ha il proprio culmine in un giorno come oggi, il 4 novembre. Da allora, quel giorno lo festeggiamo per la vittoria in quella guerra e celebriamo le forze armate come elemento “di unità nazionale”. E’ la prima questione dissonante, questa: che in una repubblica democratica, l’elemento di unità nazionale sia nell’esercito è cosa quanto meno bizzarra. Soprattutto se, come il nostro, da metà degli anni ’90 l’esercito non è formato da “cittadini in armi” – cioè soldati di leva -, ma da professionisti. La nostra unità nazionale dovrebbe essere attorno ai principi della Resistenza, della Costituzione e dei Diritti Umani. Insomma, dovremmo identificarci, come popolo, nella nostra democrazia, nel “non fascismo”, nella capacità di stare assieme. L’esercito dovrebbe essere certamente parte di tutto questo, ma non esercitando alcun ruolo nella vita pubblica, non può rappresentare in alcun modo il collante del nostro stare assieme. Traduciamo: quelli che indossano la divisa oggi, li paghiamo. Sono, in qualche modo, nostri dipendenti. Esattamente come gli altri impiegati statali. Quindi, dovremmo ritenere “elemento di unità nazionale” tutto l’apparato amministrativo pubblico del Paese.

Altro passaggio che lascia perplessi: festeggiamo il 4 novembre per una vittoria. Non lo celebriamo per ricordare la tragicità assassina della guerra, la stupida retorica che l’ha accompagnata, per rendere omaggio ai troppi morti, ai fucilati alla schiena da fanatici generali, ai disertori lasciati senza diritti, alle donne che volevano fermare i treni carichi di soldati destinati al macello, alle portatrici di viveri ingaggiate dalle armate italiane sul Carso. No: ricordiamo il virile morire nello schifo delle trincee e lo facciamo apparire come la più bella e santa delle morti. Inneggiamo ai soldati che difesero la Patria, dimenticando che in realtà stavano morendo per alimentare le ambizioni sfrenate di un re frustrato e incapace. Festeggiamo dimenticando che la nostra, in termini di diritto e di Storia, era una guerra d’occupazione, un’invasione, del tutto identica – anche nelle motivazioni – a quella che Putin ha messo in atto in Ucraina nel 2022.

Questa retorica, questa ipocrisia, rendono questa festa inadeguata e fuori dal tempo. Soprattutto, diventa una festa che non rende onore a chi è stato mandato al macello, ai troppi caduti nella trappola “dell’onore e del dovere”. Anche per queste ragioni, la Manifestazione per la pace di Roma, il 5 novembre, diventa fondamentale. Perché serve per smontare la retorica e l’ipocrisia che consentono, davanti alla criminale invasione russa dell’Ucraina, di alimentare l’idea del ricorso alla forza, della necessità delle armi, della guerra come “unica soluzione”. La manifestazione avrà tante anime, tutte le anime di coloro che – pur in modi differenti – concordano sulla necessità di un cessate il fuoco immediato. Il movimento per la pace vivrà come sempre le proprie contraddizioni, le affronterà con il dibattito e senza preclusioni, indicando strade per risolvere questa ennesima, ingiusta, guerra. Nessuno negherà il diritto all’autodifesa degli ucraini. Nessuno sarà dalla parte del criminale che ha deciso – scientemente, freddamente – di assassinare migliaia di persone pur di raggiungere i propri sogni. Ma se vogliamo trovare una strada reale per far finire la guerra e poi costruire una pace giusta e duratura, dobbiamo smetterla di alimentare con la retorica e l’ipocrisia miti che non sono mai stati reali.

Il 4 novembre dovremmo celebrare la fine di un macello scellerato e stupido, voluto solo dall’ambizione di uomini di potere. Null’altro. Festeggiare la “forza delle armi” come segno di identità di un popolo significa essere simili a qualunque altro guerrafondaio di questo meraviglioso Pianeta.

In copertina: Achille Mauzan, Fate tutti il vostro dovere! (cropped), 1917 (Libreria del Congresso a Washington)

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