di Giacomo Cioni da Gerusalemme Est
All’Educational Bookshop, il tempo sembra sospeso. Al piano terra, scaffali stipati di volumi raccontano cento anni di storia, lotta e cultura palestinese. Libri in inglese, arabo, francese, tedesco e perfino italiano: archeologia, letteratura, musica, testimonianze, romanzi israeliani. Al piano superiore, silenzio e concentrazione: studenti e lavoratori in smart working cercano una tregua dal rumore esterno. Ma quella tregua, il 9 febbraio, è stata violentemente interrotta.
Quel giorno, la libreria — insieme alla sua gemella, situata proprio di fronte su Salah Street — è stata oggetto di una perquisizione improvvisa e aggressiva da parte della polizia israeliana. Un blitz condotto in borghese, motivato dalla presunta presenza di libri con “contenuti incitanti”. A marzo, una seconda irruzione ha confermato che non si è trattato di un episodio isolato, ma di un disegno più ampio di pressione e controllo culturale. Abbiamo incontrato, Ahmed Muna, libraio e custode di questo spazio unico insieme a suo padre Imad e alla sua famiglia, pochi giorni dopo il suo rilascio, avvenuto in condizioni restrittive. Il suo racconto, lucido e a tratti doloroso, è una testimonianza preziosa di ciò che accade in una Gerusalemme dove le parole sono sempre più sotto assedio.

“Hanno giudicato i libri dalle copertine”
“Erano le 14:33 quando agenti in borghese sono entrati nei due negozi con un mandato di perquisizione”, racconta Ahmed. “Cercavano libri che incitano al terrorismo. Ma non parlavano né arabo né inglese. Guardavano le copertine, usavano Google Translate, scattavano foto. Se un libro sembrava “sospetto”, lo mettevano da parte. Gli altri li buttavano a terra”.
In meno di un’ora, entrambi i negozi erano devastati. “Hanno portato via circa 300 libri in sacchi della spazzatura. È stato umiliante”. Poco dopo, Ahmed e il collega Mahmood sono stati arrestati. Accusa: turbamento dell’ordine pubblico.
“Interrogati per vendere libri”
Cosa vi hanno chiesto durante l’interrogatorio? “Niente sui libri. Nessuna domanda sul contenuto, sugli autori, sulle vendite. Solo domande su dove viviamo, a che ora lavoriamo, se frequentiamo certe persone. Quando ho detto che vendo libri, uno degli agenti ha riso e ha detto: “Ma almeno pulisci anche il pavimento?”. Era chiaro che non volevano risposte, volevano solo umiliarci”.
Le condizioni della detenzione sono state dure. Celle fredde, letti di cemento, materassi sottili, niente cuscini, niente cibo per 24 ore. Mahmood ha passato la notte in una divisa rotta, troppo corta. Entrambi sono stati insultati, legati, bendati, accusati di simpatizzare per Hamas solo per il loro lavoro.
Ti aspettavi di essere arrestato per il tuo lavoro?
“No, mai. La nostra libreria è sempre stata aperta, trasparente, frequentata anche da turisti e diplomatici. Ma evidentemente, oggi, anche raccontare la storia palestinese è visto come una minaccia”.

Otto libri “sospetti”
In tribunale, la procura ha chiesto otto giorni di proroga per analizzare otto libri. Il giudice ha concesso un’altra notte di prigione, poi cinque giorni di arresti domiciliari, il divieto di parlare tra loro per dieci giorni, e di entrare in libreria per venti. I libri sequestrati sono stati descritti in modo vago: “copertina verde”, “foto di un villaggio”, “disegni per bambini”. Ma Ahmed crede di averli identificati: tra questi, All That Remains di Walid Khalidi, Decolonizing Israel, Liberating Palestine di Jeff Halper, un libro da colorare con la scritta “from the river to the sea”, e perfino un volume d’arte con una bandiera palestinese sul retro. “Hanno giudicato tutto dal colore della copertina. Senza capire il contenuto, né la lingua”.

La solidarietà e la paura
Cosa è successo dopo il rilascio? “C’è stata una mobilitazione straordinaria. Giornalisti, attivisti, ambasciatori: ci hanno fatto sentire che non siamo soli. Anche molti israeliani ci hanno espresso solidarietà. Ma la verità è che questa visibilità ci ha protetti. Tanti altri palestinesi, ogni giorno, subiscono perquisizioni o arresti senza che nessuno lo sappia».
Come avete vissuto il ritorno in libreria?
“È stato emozionante e doloroso. Abbiamo trovato i libri sparsi, alcuni danneggiati. Ma appena abbiamo riaperto, i clienti sono tornati. Alcuni sono venuti solo per stringerci la mano. È stato il nostro modo di resistere”.
Uno spazio di cultura
La Educational Bookshop è più di una libreria. È uno spazio di incontro, dibattito e studio. “Questo è ciò che diamo alla nostra comunità. E forse è proprio per questo che veniamo presi di mira”, dice Ahmed con amarezza.
Qual è oggi il messaggio che volete trasmettere? “Che esistiamo. Che continuiamo. Che leggere non è un crimine. Che la cultura palestinese ha il diritto di essere raccontata, condivisa, discussa. Non ci lasceremo intimidire”. Le irruzioni di febbraio e marzo sembrano parte di un più ampio processo di limitazione della libertà culturale e di pensiero in Palestina. Nella Gerusalemme occupata, oggi, anche vendere libri può diventare un atto di resistenza.
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