Un milione di vite umane perdute. Il punto (aggiornato)

Il bilancio di mille giorni di guerra in Ucraina. Il Tpi spicca un mandato d'arresto per Netanyahu e Gallant

La Corte Penale Internazionale ha spiccato ieri mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant e ha  emesso un altro mandato d’arresto a carico del leader delle Brigate Qassam Mohammed Deif, mente del 7 ottobre che secondo Israele, è però già morto. Dura reazione del Premier israeliano (appoggiato dagli Stati Uniti) che ha accusato la Corte internazionale di antisemitismo.

di Raffaele Crocco

Un milione di perdite – cioè di esseri umani morti, feriti o dispersi – in mille giorni di guerra. E’ l’inventario spaventoso della guerra in Ucraina. Un tempo infinito, quello passato dall’invasione russa, che pare sempre più in grado di cambiare il Mondo in peggio. Tutto sta accelerando. Ora, la chiave per capire cosa accade sembra essere nelle parole di Antony Blinken, il segretario di Stato statunitense: «Il presidente Biden – ha detto – si è impegnato a garantire che ogni dollaro a nostra disposizione a favore di Kiev, venga speso da qui al 20 gennaio». Le ha dette a Bruxelles, incontrando gli alleati europei impegnati a sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia.

Perché sono la chiave di lettura? Perché è evidente come su questo tema – anche su altri – Biden abbia fretta di fare le cose che ritiene essenziali, prima che alla Casa Bianca si abbatta il ciclone Trump, con l’insediamento della sua nuova amministrazione, appunto il 20 gennaio 2025. Sulla questione Ucraina, l’ex e ora neopresidente eletto è stato chiaro: si chiude e si chiude in fretta. E il modo che Trump ha in testa per arrivare ad un negoziato con Putin – negoziato che vedrà lui protagonista, non il presidente ucraino Zelensky – è di chiudere i rubinetti alle forniture militari e agli aiuti a Kiev, per evitare che la guerra possa durare a lungo.  Per questo motivo Biden, oltre alle forniture, ha dato a Kiev il via libera all’uso del sistema missilistico ATACMS (e all’uso di mine antiuomo) per colpire la Russia in profondità. Sino ad oggi le era sempre stato negato, nonostante le ripetute richieste di Zelensky. Ora l’apertura, ufficialmente per contrastare l’arrivo al fronte delle truppe nordcoreane, in realtà per contrastare la politica futura di Trump e dare almeno qualche vantaggio all’Ucraina in un futuro negoziato.

Che la situazione per Kiev sia cambiata – e in peggio – è evidente a tutti. «Senza gli Stati Uniti a reggere lo sforzo della guerra non si va da nessuna parte». Lo ha detto chiaramente in settimana il premier canadase Justin Trudeu. Lo sa per primo anche Zelensky, che al G20 celebrato in Brasile ha detto: «La guerra finirà più velocemente, con le politiche di questa nuova squadra che ora guiderà la Casa Bianca».

La questione è che anche Putin è consapevole che l’arrivo di Trump potrebbe accelerare i tempi verso un negoziato. Per questo, sta intensificando l’azione militare sul campo. Anche lui vuole dei vantaggi. Così, ha reagito alla notizia sull’uso dei missili statunitensi con poderosi bombardamenti sulle città e sulle infrastrutture ucraine e, sul campo di battaglia, aumentando la pressione sulle linee di difesa di Kiev. Sul piano politico ha avvisato il Mondo che «gli attacchi con ATACMS segnano una nuova fase della guerra». Contemporaneamente, il Cremlino ha ufficialmente rivisto la propria dottrina sull’impiego delle armi nucleari e non è una revisione in senso pacifista.

Insomma, viviamo l’ennesimo paradosso: l’avvicinarsi delle condizioni di un negoziato per il cessate il fuoco porta con sé settimane di guerra più feroce e allargata. Ferocia che continua nel Vicino Oriente dove intanto il Tpi chiede l’arresto di Netanyahu e Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità. L’azione di Israele appare incessante, mentre il minuetto della diplomazia diventa sempre più inutile e falso. Gli attacchi a Gaza non hanno fine. In settimana è stato attaccato anche un ospedale nella zona Nord della Striscia, sono morti anziani e bambini. A Sud, in Libano, gli attacchi dell’esercito di Tel Aviv hanno ucciso almeno tre soldati libanesi, mentre la diplomazia statunitense sembra non avere successo nella ricerca di un cessate il fuoco.

Insomma, la guerra continua ovunque, con lo scontro sempre più reale e acceso fra “filoamericani” e “antagonisti”. Confronto che si accende in mille piccoli altri episodi e con altri scenari sullo sfondo. In settimana, il premier giapponese Shigeru Ishiba ha espresso al presidente cinese Xi Jinping la sua «seria inquietudine riguardo la situazione nel Mar cinese meridionale, a Hong Kong e nello Xinjiang». L’occasione è stata il primo incontro bilaterale tra i due leader, a margine del summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) in Perù. Un timore, questo, che tiene accesa l’attenzione anche su quanto sta accadendo per il controllo delle rotte nell’Oceano Pacifico.
Più lontano, in India, nel Jharhand dominato dalle tribù, la destra ha etichettato i musulmani come “infiltrati del Bangladesh” e ha fatto salire la tensione interna. Tensione altissima anche in Nuova Zelanda, con in Maori protagonisti di una grande marcia pacifica di nove giorni nella capitale, Wellington, per difendere i propri diritti costituzionali. Il Mondo si muove, dappertutto. Ma non sempre sembra andare nella direzione migliore.

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