Un nuovo Stato per avere speranza

Di Enzo Nucci

La nascita del 54° stato africano è stata travagliata e sanguinosa. Se le parole ed i numeri conservano ancora la forza per descrivere orrore e violenza, ricordiamo che il Sud Sudan ha visto la luce ufficialmente il 9 luglio 2011 dopo due guerre civili (combattute a partire dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1956 fino al 2005, con una sola interruzione dal 1973 al 1983). Due milioni e mezzo di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese. È stata la più lunga guerra del Novecento, “la più dura operazione di islamizzazione forzata del secolo scorso” – secondo alcuni analisti – che ha generato per reazione “un corale e coraggiosissimo movimento di resistenza contro il genocidio di un popolo animista e cristiano, profondamente africano”.

In pochi scommettevano sulla buona riuscita del referendum (svoltosi tra il 9 e il 15 gennaio del 2011) che ha sancito l’autodeterminazione del Sud di staccarsi dal Nord, così come previsto dagli accordi di pace sottoscritti nel 2005 tra il Governo fondamentalista di Khartoum e l’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (Spla).

Il Presidente Omar El-Bashir (dittatore incontrastato del Sudan) non si è risparmiato per mandare tutto all’aria. Dapprima ha infatti tentato di far votare nella consultazione referendaria anche i missiriya, pastori arabi non stanziali che solo stagionalmente attraversano il Sud con le loro mandrie alla ricerca di pascoli. E dopo il plebiscito (nel corso delle trattative per stabilire i confini tra i due stati che includevano anche la ricca zona petrolifera di Abyei) non ha esitato tra il 19 ed il 21 maggio ad invadere ed occupare l’area contesa, mettendola a ferro e fuoco e bombardando i villaggi vicini. L’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha registrato 96mila profughi mentre l’Spla ha denunciato l’uccisione di 100 civili. Una situazione di crisi gravissima risolta sul filo di lana dalle Nazioni Unite che hanno convinto l’Etiopia a dispiegare un proprio contingente militare come forza di interposizione per il mantenimento della pace nella regione di Abyei, geograficamente appartenente al Sud, in cui sono concentrati i tre quarti delle risorse petrolifere di tutto il Sudan e che è anche la Regione più fertile e ricca di acqua.

Ma passata l’euforia di massa per una festa attesa da 56 anni restano i tanti problemi irrisolti. I lunghi e duri anni di conflitto armato non hanno affatto mitigato la tensione tra il Governo di Juba (capitale del Sud Sudan) e quello di Khartoum nonostante le rassicuranti dichiarazioni del neopresidente Salva Kiir e di Omar El-Bashir. La guerra “a bassa intensità” continua infatti nello stato federale del Kordofan meridionale (che appartiene al Nord) dove milizie armate considerate vicine al Sud Sudan si scontrano metodicamente con l’esercito del Nord. La missione dell’Onu in Sudan (Unmis) ha diffuso nel luglio 2011 un rapporto che ipotizza crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nelle settimane precedenti. Secondo l’Unmis, in Kordofan i combattimenti cominciati il 5 giugno hanno provocato oltre 70mila sfollati. Nonostante l’accordo per il cessate il fuoco sottoscritto a inizio luglio, si continuano a registrare crimini e violenze da entrambi le parti in lotta. Ma responsabilità particolari ricadrebbero sulle forze di Khartoum, coinvolte in assassinii mirati di esponenti dell’ etnia nuba e di altre popolazioni non arabe della Regione. Per questo l’Unmis chiede al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la creazione di una commissione di inchiesta sul Kordofan meridionale.

I bombardamenti dell’esercito di Khartoum coinvolgono anche gli abitanti dei Monti Nuba, da sempre schierati con l’Spla perché il loro obiettivo è di far parte del Sud Sudan. Centinaia di loro attivisti sono stati arrestati perché impegnati in campagne di scolarizzazione ed in azioni di monitoraggio nel corso delle elezioni di marzo nel Kordofan meridionale. A gettare inoltre benzina sul fuoco, c’è anche l’ipotesi di un coinvolgimento in questi combattimenti del principale gruppo ribelle del Darfur ovvero il Movimento Giustizia e Uguaglianza (Jem).

Al proprio interno il Sud Sudan finalmente indipendente deve affrontare alcune importanti sfide. La prima è la convivenza pacifica tra le varie etnie. In particolare la normalizzazione dei rapporti tra le comunità minoritarie e quella maggioritaria dei dinka che occupano i posti più importanti nel governo forti del loro passato militare, poichè sono stati la colonna portante della lotta di liberazione. I molti che invece sono stati costretti all’esilio oggi devono accontentarsi di posti di secondo piano, anche se meglio preparati e con capacità professionali superiori. Secondo Edmund Yakani, promotore del dialogo tra le etnie, “i dinka sono i più influenti nel Paese, un ruolo guardato con sospetto dalla altre comunità e che rischia di acutizzare in alcuni i sentimenti di marginalizzazione. Il maggiore ostacolo all’affermazione di un moderno sistema democratico è quello che impedisce alle persone di sentirsi rappresentate se non da membri dello stesso clan o tribù”.

Insomma le contese tribali rischiano di minare le già deboli fondamenta del neonato Sud Sudan. Ed a questo è strettamente connesso il tema della rappresentanza politica. Alcuni degli oltre 20 partiti nati negli ultimi tempi sono schierati contro il governo dell’Spla. Sostengono che una vera democrazia comporterà il rovesciamento del regime di Juba. Ma il limite di questa opposizione è che non riesce a proporre un programma alternativo perché la sua base si fonda proprio sull’appartenenza etnica e l’azione dei dirigenti è purtroppo dettata solo dalla voglia di entrare nella stanza dei bottoni.

Frutto malato di questo selvaggio sviluppo politico è la corruzione. Troppi esponenti del Governo (ieri militari, oggi civili) danno per scontato il diritto di avere più degli altri cittadini. La strada è l’appropriazione indebita di fondi pubblici (alimentati dagli aiuti internazionali) ed un vorticoso giro di tangenti che producono livelli di vita scandalosamente elevati alla faccia dei tanti che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Per rendersene conto basta osservare i lussuosissimi fuoristrada che sfrecciano con i vetri oscurati nelle strade di Juba o recarsi nei ristoranti alla moda (e dai prezzi europei) che animano le notti della capitale, fino a 7 anni fa poco più di un triste villaggio. Il Presidente Salva Kiir ha dichiarato da tempo guerra alla corruzione ma fino ad ora senza alcun risultato apprezzabile.

La capacità di promuovere lo sviluppo economico è il banco di prova di questa leadership forgiatasi nella clandestinità e nella guerra. Il controllo dei pozzi di petrolio resta la grande contesa irrisolta che divide il Sud (nel cui territorio insiste il 75% delle risorse) dal Nord (che ha invece sbocchi sul mare e raffinerie per esportare il greggio). La Cina non ha perso tempo e si è affrettata a stabilire salde relazioni diplomatiche con il nuovo stato, solide come quelle che da tempo la uniscono a Khartoum. Pechino chiede il petrolio a Juba, in cambio è pronta a costruire le infrastrutture necessarie per lo sfruttamento dei giacimenti. Intanto con un prestito di 15milioni di dollari senza interessi tiene buono il terribile Presidente-dittatore Bashir.

Il Sudan continuerà ancora a lungo a condizionare il Sud Sudan. I suoi migliori alleati sono guerriglia, corruzione, povertà, sottosviluppo, tribalismo, insufficiente rappresentanza politica. Ed in mancanza di radicali cambiamenti non è esclusa un’altra guerra, l’ennesima, la prossima.

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