La giunta golpista birmana ha confermato di aver trasferito la leader democratica Daw Aung San Suu Kyi dal luogo ignoto a Yangon dove era stata imprigionata dopo il golpe del febbraio 2021 in un altro sito sconosciuto nella capitale – Naypyidaw – dove si trova in isolamento. Secondo i militari sarebbe stata trattata “bene”: un vero sberleffo al mondo dal momento che, accusata di decine di reati, nessuno ha mai potuto incontrarla salvo i suoi avvocati e con non poche difficoltà. Ora c’è forse il rischio che la Lady scompaia definitivamente persino dalla scena virtuale dei suoi processi farsa, colpita dal perverso meccanismo dell’isolamento che appare come una misura estrema in una strategia della giunta difficile da comprendere. Accade mentre l’ Assistance Association for Political Prisoners (Aapp), che tiene il tragico registro di morte, imprigionamenti e condanne, sostiene che il 23 giugno – 598mo giorno dal golpe di febbraio – il numero delle vittime ha sorpassato quota 2000 con un bilancio di 2011 decessi imputabili ai golpisti.
E’ un dato che viene confermato, al termine di una visita in Malaysia, anche da Tom Andrews, UN Special Rapporteur per i diritti umani in Myanmar: “Le forze della giunta hanno ucciso più di 2.000 civili, arrestate più di 14.000 persone, sfollandone più di 700.000, portando il numero di sfollati interni a ben oltre un milione e precipitando il Paese – scrive l’inviato Onu – in una crisi economica e umanitaria che minaccia la vita e il benessere di milioni di persone. Gli attacchi dei militari al popolo del Myanmar costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, dice senza perifrasi: “A nessuno è stato risparmiato l’impatto della violenza dei militari. La posta in gioco – dice ancora – è troppo alta per il Myanmar e il suo popolo per accettare il compiacimento e l’inazione della comunità internazionale”. Andrews non dimentica di ricordare il passato dei militari birmani con i Rohingya, la popolazione musulmana del Myanmar occidentale espulsa dai militari in Bangladesh e vittima di “atrocità e attacchi genocidari”.
Le parole sono dure ma i fatti restano quelli: la leader, cui già le corti birmane hanno comminato anni di galera, è in isolamento e una violenza quotidiana viene esercitata verso chiunque manifesti resistenza. Una guerra (e una resistenza) oscurata da altre più vicine e più eclatanti nell’uso delle armi pesanti anche se Tatmadaw (com’è chiamato l’esercito birmano) ne fa un uso costante a cominciare dai bombardamenti indiscriminati che, oltre alle abitazioni civili, hanno anche colpito persino i luoghi di culto. Yangon è ritornata abbastanza alla normalità salvo qualche rapido flash-mob. Ma in periferia si continua a combattere. Il Paese brucia.
Su Aung San Suu Kyi, la bestia nera della giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing, aleggia anche lo spettro della pena di morte. Per ora la giunta si è astenuta ma le prime esecuzioni potrebbero cominciare proprio adesso. Per non essere forse le ultime. In Italia, Amnesty International e Italia-Birmania Insieme, richiamando l’appello di oltre un centinaio di organizzazioni per la difesa dei diritti umani, hanno appena condannato l’annuncio da parte delle autorità militari del Myanmar, della ratifica di quattro condanne a morte emesse a seguito di processi gravemente irregolari. Phyo Zeya Thaw, già esponente della Lega nazionale per la democrazia, e l’attivista Kyaw Min Yu, sono stati condannati a morte ai sensi della Legge antiterrorismo con accuse di attentati e finanziamento del terrorismo. Gli altri due condannati a morte, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, sono stati giudicati colpevoli dell’uccisione di un’informatrice della giunta. Le condanne a morte comminate sono 114 di cui 4 ora sono definitive. Italia-Birmania Insieme ha poi scritto una lettera al ministero degli Esteri chiedendo trasparenza sull’attività di alcune aziende italiane nel Paese dove la Farnesina ha per ora ritirato l’ambasciatrice e tra pochi giorni chiuderà gli uffici di cooperazione.
(Red/Est)
In copertina, foto di Svetva Portecali