Un’occasione fallita le crisi del Mediterraneo

di Amedeo Ricucci

Alla fine l’euro-zona ce l’ha fatta. E sia pure a fatica, quello che a tutt’oggi resta il fiore all’occhiello dell’Unione Europea – vale a dire l’euro, in quanto moneta comune – è stato salvato, nonostante la recessione economica, dai ripetuti attacchi della speculazione che hanno via via colpito gli Stati membri più deboli, dalla Grecia all’Italia, passando per Irlanda, Spagna e Portogallo. Questo vuol dire molto probabilmente che nel quadro delle dinamiche geopolitiche mondiale l’Europa continuerà ad avere un ruolo da protagonista, come nel passato. Ma il problema vero è capire se questa Ue sia all’altezza dei tumultuosi cambiamenti in corso e delle sfide globali che la attendono. Manca un’anima, ancora, manca un Popolo, e manca una Costituzione materiale su cui tracciare una direzione di marcia comune, su cui provare ad aggregare gli altri attori della politica internazionale.

Da questo punto di vista, non depone certo a favore il balbettio penoso di cui sia l’Unione che i diversi Stati membri hanno dato prova quando sono esplose all’inizio del 2011 sull’altra sponda del Mediterraneo le prime rivoluzioni arabe. E non solo perché ci si è attardati con un balletto indecente – e in nome di una concezione vetusta e manichea della lotta al terrorismo internazionale – a difendere despoti corrotti che la Storia stava finalmente spazzando via. Quel che è peggio ancora è che a fronte del primo flusso di profughi in fuga – i primi 5mila affluiti a Lampedusa – si è lasciato che a parlare fossero gli interessi egoistici dei singoli Stati, dimostrando una inadeguatezza culturale – prima ancora che politica – che non giova certo alla sicurezza e all’ordine sociale tanto nel Nord che nel Sud del Mediterraneo. L’Italia in quel frangente è stata lasciata da sola a gestire l’accoglienza, mentre Francia e Germania sigillavano le loro frontiere e gli altri Paesi voltavano gli occhi dall’altra parte. Triste spettacolo. E dire che la Tunisia si è accollata l’accoglienza di oltre 300mila profughi in fuga dalla guerra in Libia, senza isterie e senza bisogno di costruire campi di concentramento.

Se non bastasse, c’è stata poi l’improvvida avventura militare promossa in marzo proprio in Libia. Dove l’Unione Europea – e l’Italia – si sono lasciate trascinare dal protagonismo francese e inglese, salvo poi chiedere l’ombrello della Nato, senza però mai avere un’idea chiara e precisa del perché si dovesse scatenare quella guerra. Anche in questo caso l’Europa ha agito in ordine sparso, con buona pace del Rappresentante unico per la politica estera e la sicurezza, la signora Catherine Ashton, che dal giorno del suo insediamento, nel 2007, in seguito al Trattato di Lisbona, continua a collezionare brutte figure. È sempre la stessa storia. Tutte le volte che l’Europa potrebbe e dovrebbe esprimersi in maniera unitaria, per far sentire la sua voce sullo scacchiere internazionale, si ritrova invece a fare da ruota di scorta dei suoi stati-membri più forti, che non vogliono rinunciare ad un ruolo nazionale, oppure dell’alleato d’oltre oceano, gli Stati Uniti. L’unico risultato ottenuto in Libia, per ora, è quello di avere aperto un nuovo fronte di guerra, le cui ferite rischiano di trascinarsi a lungo, come nei Balcani, aumentando perciò la lista dei problemi sul tappeto e quindi le aree di instabilità alla periferia del Vecchio Continente.

Quello che serve, in realtà, è un nuovo patto fra Europa ed Africa. Credere infatti che i processi migratori in atto – e le nuove dinamiche politiche e sociali da cui scaturiscono, nel Nord Africa così come nell’Africa sub-sahariana – possano essere ostacolati, compressi o deviati sulla base dei nostri presunti interessi nazionali è solo una pia illusione, che serve al massimo per strategie elettorali di bassa lega. C’è bisogno invece di un’Europa che sia in grado di progettare un proprio futuro comune basato sull’inclusione sociale: il che vuol dire provare a regolare gli inevitabili flussi migratori che ci riguarderanno nel prossimo futuro, con spirito di sacrificio, sapendo cioè che bisognerà comunque cambiare le nostre consuetudini e saperle adattare alla nuova situazione. Non c’è alternativa, se si vuole ancora coniugare la democrazia con lo sviluppo economico e sociale.

Allo stesso tempo, però, serve che l’Europa, almeno per quanto riguarda i suoi Paesi a vocazione mediterranea, si impegni seriamente in una prospettiva di partenariato equo e solidale con i Paesi della sponda Sud. È tempo ormai che dagli accordi bilaterali, finora prevalenti, si passi ad un disegno multilaterale della Ue, con l’obiettivo dichiarato di superare le pregiudiziali che su entrambe le sponde l’hanno finora frenato. Ma questa nuova Europa che guarda a Sud, all’altra sponda del Mare Nostrum, non può che essere un’Europa politica, in grado di parlare una lingua unica e comune, che non si accontenti di accettare lo status quo ma promuova il cambiamento. Per alcuni versi ci aveva già provato il Presidente francese Sarkozy, quando nel luglio del 2008 aveva lanciato l’Unione del Mediterraneo. L’idea era buona, ma la sorreggeva una visione ancora neo-coloniale, come spesso capita con le iniziative francesi. E in ogni caso la crisi economica mondiale, scoppiata di lì a poco, aveva subito affossato il progetto, relegandolo in un cassetto dal quale non è più riuscito. La Ue potrebbe riprenderlo e rilanciarlo oggi, alla luce delle grandi trasformazioni in corso in tutto il Nord Africa. È la nostra ultima spiaggia. A meno di non voler credere che l’Europa sia un’isola, che si possa tenere al riparo dai sommovimenti che scuotono oggi il mondo. In altri tempi furono le legioni ad imporre la pax romana sul Mare Nostrum. Ma quei tempi sono finiti per sempre. E non si può certo pensare di ridurre i flussi migratori ad un problema di ordine pubblico.

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