Venezuela, el día después

Fallito il tentativo di insurrezione popolare, la diplomazia comincia il suo lavoro. Il fronte pro-Guaidó si divide, gli Usa perdono alleati,e  l'opzione di un intervento militare non piace nemmeno a Bolsonaro

di Maurizio Sacchi

Si è concluso con la diserzione di appena 151 militari, e con un nulla di fatto sui due lati della frontiera ,il lungo week end che, nelle intenzioni dei seguaci di Guaidó e dei 14 Paesi latinoamericani del Gruppo di Lima che lo sostengono, avrebbe dovuto segnare la caduta del regime chavista in Venezuela. Davanti a questo stato di stallo, e essendo ormai evidente che un secondo tentativo di forzare le frontiere con le colonne di aiuti non avrebbe successo, le diplomazie hanno ripreso voce.

Un tavolo di trattativa internazionale, con la presenza dei Paesi sostenitori di Maduro pare in effetti l’unica opzione che goda di consenso. Ma i falchi, e Guaidó stesso, premono perché “nessun mezzo sia escluso” per la deposizione del “dittatore”. Intanto la goffa guerra mediatica dei giorni scorsi sembra aver danneggiato chi ne ha fatto uso: dai falsi aiuti sui camion bruciati, al caso dell’intervista a Maduro sequestrata.

Il fronte apparentemente compatto alla vigilia del D day del 23 febbraio si è già diviso, e sull’opzione di un intervento militare  la maggioranza dei componenti del fronte pro- Guaidó sta  prendendo le distanze. L’Unione europea ha ricordato, in una dichiarazione di Federica Mogherini, che  la transizione debba avvenire in modo pacifico, e nel rispetto delle regole del diritto internazionale. Ma anche il governo di ultra destra del Brasile ha chiarito, nelle parole di un alto comando dell’esercito, che non viene presa in considerazione l’opzione di mandare soldati alle frontiere col Venezuela.

Secondo fonti di stampa, anche gli altri Paesi del gruppo di Lima escluderebbero questa possibilità. Commenta al riguardo il Guardian di Londra che la lunga ricaduta degli effetti dell’invasione dell’Iraq mette tutti in allarme. Anche perché, con i  più di 300.000 uomini in armi nell’esercito venezuelano, e un sostegno popolare a Maduro tutt’altro che svanito, l’esito sarebbe probabilmente una lunga e sanguinosa guerra civile.

D’altra parte prospetta una trattativa anche la lunga dichiarazione uscita dalla riunione di Bogotà del gruppo di Lima il 25 febbraio, il lunedì successivo al week end  del tentativo di spallata al regime. Dopo vari appelli alla comunità internazionale per un immediato disconoscimento del “dittatore”,  il documento dichiara sia l’intenzione di portare il caso Venezuela davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, sia di ricorrere alla Corte internazionale dell’Aja, per denunciare i crimini di Maduro. E di fatto chiede ai Paesi che sostengono, anche economicamente, il governo chavista, di fare pressioni per una transizione pacifica. Tutte soluzioni di tipo negoziale, che paiono in contraddizione con quanto dichiarato dal vicepresidente americano Pence alla riunione del Gruppo, con il richiamo a tutti i Paesi in toni accesi e urgenti, per l’immediata delegittimazione del governo venezuelano. Con la reiterata affermazione che ciò vada perseguito “con ogni mezzo”.

Se vi sarà una trattativa, non sarà facile far passare Maduro come un dittatore, visto che in 18 anni di potere chavista si sono avute più di 22 elezioni; e che l’opposizione ha vinto, oltre a quelle politiche del 2015, anche un referendum, ed  eletto vari governatori e sindaci. Alle elezioni che dovrebbero succedere alla trattativa non si pptrebbe pensare di delegittimare, con Maduro, anche tutti i suoi sostenitori. Se davvero l’avventura di un atto di forza sarà evitata,  ora la partita si sposta, dalle frontiere di Venezuela, Colombia e Brasile, alle stanze della diplomazia.

Una piccola guerra mediatica, fatta di fake news e di telecamere sequestrate, si è svolta intanto in parallelo a quanto avveniva alle frontiere e nei luoghi del potere. Il caso dei camion di aiuti bruciati al ponte di Tienditas, alla frontiera Colombia-Venezuela, è emblematico. Le prime versioni, come sempre affidate a twitter, affermavano che i primi quattro camion, mossisi per entrare in Venezuela, erano stati attaccati e dati alle fiamme da militari venezuelani appena varcato il confine. Poi si era visto che i camion bruciavano in territorio colombiano. E si segnalavano presenze di paramilitari colombiani fra la folla addensata alla frontiera. Infine, spente le fiamme, si è visto che il contenuto di uno dei camion erano: chiodi a tre punte (per forare i pneumatici); maschere antigas; fischietti; e gilet blu, come quelli usati dal servizio d’ordine di Guaidó. Il tutto definito come “aiuti umanitari”, e targato Usaid.

Sul fronte opposto, non è uscito bene nemmeno Maduro, che prima ha accettato di farsi intervistare e poi, irritato dalle domande, ha abbandonato la stanza, facendo sequestrare i due giornalisti ed espellendoli ore dopo, senza le telecamere e i telefoni, che saranno restituiti il giorno seguente, completamente svuotati. Il racconto dell’avvenuto sul New York Times ha questo titolo: “Il dittatore Maduro si merita il suo nome“.

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