di Emanuele Giordana
Bangkok – Il vecchio “Triangolo d’oro”, l’area di massima produzione di oppio e derivati che aveva il suo vertice in Birmania e la base divisa tra Laos e Thailandia, è diventato oggi, nella nuova geometria criminale dell’Asia, un disegno geometrico rovesciato: un “Triangolo della truffa” che ha un vertice verticale così lungo da arrivare a Giacarta. Gli Stati chiave del Triangolo della truffa di oggi sono sempre Birmania, Laos e Thailandia con l’aggiunta della Cambogia. Ma la loro influenza o le zone di reclutamento sono molto più vaste. Ma è soprattutto in questi tre Paesi, come abbiamo già documentato su questo giornale, che si svolge da circa cinque anni questa nuova attività emblema di una creativa modernità criminale: le truffe online. Il nostro viaggio, per il terzo anno consecutivo, parte da Bangkok e percorre tutti i lati del triangolo: i luoghi dove la guerra (Myanmar), dittature opache (Cambogia), Paesi poveri (Laos) fanno da contorno al punto di partenza che è la capitale tailandese. In una rete di connivenze mafiose, polizie corrotte, governi compiacenti, affari.
Adescamento
E’ proprio da Bangkok che partono i cyber truffatori attirati da inserzioni sulla Rete, messaggi su Telegram, annunci pubblicitari via web che cercano giovani informatici – donne e uomini – che sappiano maneggiare lingue, pc e smartphone. Attirati dalla promessa di lauti guadagni, ragazzi delle più diverse nazionalità vengono poi portati da Bangkok lungo le frontiere con altri Paesi. Da lì, passato il confine clandestinamente, arrivano nel posto di lavoro che è in realtà un “compound” – uno o più edifici collegati con sbarre alle finestre – e in cui si può solo entrare. Il passaporto e il cellulare finiscono sotto chiave e il lavoro viene spiegato con un training rapido ed efficace: si tratta di accalappiare anziani un po’ rimbambiti, giovani che vogliono far soldi facili, impiegati o lavoratori che sperano di integrare lo stipendio. Li si attira nel mondo delle criptovalute con un sistema complesso e raffinato di conti online su cui mettere i guadagni del gioco finanziario. Va bene due-tre volte. Poi, quando ci si è guadagnati la fiducia del “maiale” (nel gergo mafioso degli Scam Center, i centri della cyber truffa), lo “scannatore” fa investire una grossa somma e il conto condiviso si dissolve. Il sistema è nato nelle tante Las Vegas birmane, cambogiane e laotiane sorte negli anni sui confini del regno thai: case da gioco, prostitute, stupefacenti. Luoghi creati per attrarre thai, turisti occidentali ma soprattutto cinesi. I casinò laotiani, birmani e cambogiani – vietati ai residenti – sono aperti a tutti gli altri. Ma, nel 2019 arriva il Covid e le Las Vegas asiatiche devono chiudere i battenti.
Città sul fiume
Da Bangkok a Mae Sot il viaggio si compie in un’ora d’aereo. La città thai sul confine birmano è divisa dalle case da gioco birmane dal fiume Moei che, nella stagione secca, si attraversa a piedi. Il grosso delle città della truffa – le “Scam City” come ormai sono note – è al di là della frontiera. Ex Las Vegas in miniatura, sono ora decine di agglomerati urbani dediti alla truffa online. Si vedono bene dal territorio della Thailandia che, fino a qualche mese fa, forniva loro luce, Internet e commercio minuto. Shwe Kokko, Park KK, Gate 25… le chiamano così. Alcune sembrano solo località dell’azzardo. Ma in altre si vedono bene alti muri di cinta che nascondono edifici con le sbarre alle finestre. Alla porta, miliziani armati fedeli alla giunta golpista birmana. Scappare da qui è impossibile. Il miliziano è anche un cecchino.
Secondo l’Onu sarebbero oltre 200mila i cyber schivi di tutto il Sudest asiatico. Per Pechino invece almeno 300mila. Secondo fonti locali, nella sola Thailandia sarebbero 140mila, ci rivela una fonte. Sotto pressione cinese, la giunta birmana ne ha fatti liberare recentemente circa 7mila di 29 Paesi diversi. Una goccia nel mare.
Provincia speciale mafiosa
Di fiume in fiume, nel Nord della Thailandia, passiamo il Mekong. Si arriva in un posto di frontiera laotiano che si chiama proprio “Golden Triangle”. E’ un intero territorio di circa 100 kmq affittato da Vientiane per 99 anni all’imprenditore cinese in odore di mafia Zhao Wei, che gestisce sostanzialmente una sorta di provincia autonoma – ufficialmente una “Zona economica speciale” – dove la polizia laotiana non ha giurisdizione. Non sembra di essere in Laos ma in Cina: si usa lo yuan, le scritte dei negozi sono in cinese e la lingua semiufficiale è il mandarino. Solo l’ora è la stessa del Laos. Il cuore di questa modernissima città sul fiume, dotata di un aeroporto internazionale e di un porto di attracco, è il King’s Roman Casinò, casa da gioco-hotel con tavoli verdi e ragazze iper truccate. Il passaggio di mano delle mazzetta da 100 yuan è impressionate. Davanti al Casinò, un investimento miliardario ha ricostruito Venezia con tanto di gondole, le case bianco azzurre della Grecia, statue greco-romane. Un pugno nell’occhio che trasuda ricchezza, opulenza e cattivo gusto: praticamente deserto in uno spazio che vuole esser un hub turistico e un luogo dove lo sviluppo sostituirà la piaga dell’oppio, come recitano i dépliant illustrativi degli alberghi. Ci chiediamo se i compound sbarrati ci sono anche qui – come racconta un’inchiesta dell’International Crisis Group – e se i ragazzi africani che incontriamo siano degli “scammer” in apparente libera uscita. Parlano inglese e restano vaghi su quel che fanno. Un giro in moto ci permette di scorgere gli edifici in una zona nemmeno troppo nascosta di questa città del vizio che è dunque, anche una “Scam City”. Ne contiamo quattro: finestre sbarrate, miliziani in tutta nera, accessi seminascosti. Ce ne è anche uno in apparente disarmo. E in effetti l’estate scorsa sulla stampa locale sono apparse notizie di retate che avrebbero ripulito il Triangolo. Senza andar troppo a fondo evidentemente.
Principi e scammer
Usciamo in fetta da questa provincia in odore di riciclaggio e da cui passerebbe anche parte del commercio della Yaba, la micidiale miscela di anfetamina e caffeina: precursori tailandesi o cinesi, laboratori birmani, il Mekong come via per raggiungere qualche cargo amico nel Mar cinese. C’è ancora un posto che dobbiamo vedere. In Cambogia. Di uovo un regno, governato da una dittatura dinastica che affianca un vecchio monarca. A Phnom Penh, la capitale, ci indicano il quartiere di Poung Peay, in centro, dove ci sarebbe uno “scam center”. Non riusciamo a individuarlo e allora andiamo a colpo sicuro: la nuova autostrada sino-cambogiana ci porta a Sihanukville, città dedicata al “principe rosso”, l’eclettico politico, regista e attore che resistette agli americani, divenne prigioniero e poi alleato dei Khmer rossi e morì nel 2021 in Cina, sua grande alleata. Contrariamente alla capitale, Sihanukville fa poco mistero della sua attitudine criminale. Gli “scam compound” si incontrano continuamente e praticamente ovunque nella città portuale cambogiana che da piccolo resort per fricchettoni è diventata la promessa di un grande hub commerciale navale. Intanto però i soldi si fanno con le truffe e, ovviamente, i casinò. Ce ne sono decine e in molti casi, alle loro spalle, c’è il classico muro con filo spinato, accessi chiusi, scherani armati e finestre sbarrate. In un caffè vicino al porto incontriamo un giovane imprenditore che chiede l’anonimato, come tanti durante questo viaggio: “La città – dice – è piena di scam center”.
In copertina: due lavoratori birmani si lavano nella provincia di Bokeo per strada davanti a uno dei diversi edifici con le finestre sbarrate che si trovano in questa modernissima città creata nel “nuovo” Triangolo d’oro. Foto di Monika Bulaj
Questo reportage, uscito sabato su Alias, è stato sviluppato con il sostegno di Journalismfund Europe
Il prossimo giugno uscirà un libro del nostro Emanuele Giordana (a quattro mani con Massimo Morello) dal titolo “Asia criminale” (B&C) dedicato alle attività criminose ma non solo del Sudest asiatico. Il viaggio nelle Scam City durato tre anni, qui sommariamente descritto, viene approfondito in diversi capitoli.






