Yemen, la guerra ignorata

Progetti, numeri e azioni nella "catastrofe umanitaria più drammatica del mondo"

di Stefano Bocconetti

Numeri contro. I primi sono quelli che raccontano di Al Gharbi, Tajamo’. Oppure Al-Juma’a o Sawakh. Quelli che, con una frase fatta si direbbe: sono solo un puntino nelle mappe geografiche. Ma in questo caso sembrano non aver diritto neanche a quel puntino. Non ci sono, non sono neanche nelle mappe (chiunque può fare la prova su Google). Perché sono insediamenti informali. Dove vive – provano a sopravvivere – una parte, una piccola parte degli sfollati dello Yemen.

Sì, lo Yemen. Quel paese – diviso in due, Nord e Sud – che per restare nei luoghi comuni si indica come quello della “guerra dimenticata”. Ma pure in questo caso, forse, è arrivato il momento di essere più precisi: perché quella nello Yemen è più una “guerra ignorata”. Come se si avesse timore di gettare lo sguardo in una situazione drammaticamente complessa, difficile da capire. Come se si avesse un timore reverenziale a parlare delle enormi responsabilità delle potenze. Mondiali e locali.

Guerra “ignorata”, allora. Non dimenticata, perché non se ne sono mai occupati. Guerra ignorata. Da tutti. A cominciare dai media. E stavolta non è un modo di dire, perché c’è una ricerca dettagliata della Farnesina e dell’università di Urbino (Yemen: la crisi e la sicurezza, a cura di Anna Maria Medici) che spiega con mille dati e grafici, come i giornali, le tv, gli stessi siti di informazione si limitino a raccontare dello Yemen solo quei pochi “fatti” che hanno un rapporto con l’Occidente. Per il resto silenzio. O quasi.

Eppure si sta parlando della “più grave crisi umanitaria” del mondo, per usare le parole del segretario generale dell’Onu. Con numeri che si ha addirittura qualche remora a scrivere per quanto sono spaventosi: quasi 21 milioni di persone hanno bisogno di aiuto, sedici milioni e mezzo di persone soffrono la fame, quasi metà della popolazione, che per sopravvivere ha bisogno di aiuti umanitari. Due milioni e mezzo di bambini sono in una condizione che i rapporti definiscono di “malnutrizione acuta”. Rischiano di morire. Gli sfollati, poi: sono quattro milioni. Quattro milioni di civili che scappano dalle linee del fronte in continuo movimento. E poi ci sono le centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che sono scappati dalle guerre limitrofe, dagli altri paesi.

Numeri appunto, numeri della catastrofe più drammatica del mondo. Numeri che in qualche modo, però, hanno un loro “contrario”. Di che si tratta? Per dirne una, delle 772mila persone raggiunte dai progetti umanitari di Intersos. Che qui, nel paese devastato, c’è ed opera dal 2008. Anche al Nord. Anche nella parte settentrionale del paese. Quello in mano agli Houthi. Che confina con l’Arabia Saudita.

Yemen settentrionale dove manca tutto. Dove l’intervento umanitario è indispensabile. E dove Intersos porta avanti otto progetti per sostenere le cure mediche, la salute, la nutrizione, la protezione, il diritto all’acqua, all’igiene delle persone. Numeri “contro” che parlano di supporto a 21 strutture mediche. Nei governatorati di Hajja, nel distretto di Ku’aydina, in quello di Qafl Shamer, così come nel Governatorato di Ibb, nei distretti di Far Al-Udayn e Hazm Al-Udayn, di Al-Udayn e Dhi Suffal. Ed ancora, le cifre di Intersos raccontano del supporto anche psicologico ai più bisognosi, alle donne. Dove però “supporto” non significa solo il piccolo aiuto, il sostegno. Perché senza quel “supporto” quelle strutture sanitarie, dislocate in aree rurali quasi irraggiungibili, non potrebbero funzionare. Non avrebbero né strumenti, né medicinali. E i medici non avrebbero neanche una retribuzione adeguata. Sì, perché qui i sanitari non percepiscono uno stipendio da sei anni. Sei lunghi anni. Ed Intersos contribuisce anche ad alleviare questo problema, con degli incentivi.

Ma i numeri “contro” la guerra sono anche tanti altri. Comprendono la clinica mobile nei distretti di Ku’aydina (che gira in continuazione e riesce a coprire tutti e sette gli accampamenti informali), e dà assistenza anche a centro medico e un ospedale distrettuale. E poi gli interventi a Qafl Shamer o ad Abs. Numeri sono anche quelli del progetto che riguarda 230 persone che erano e sono in pericolo di vita e non possono permettersi cure mediche specializzate. E che prevede un sostegno finanziario. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma si correrebbe il rischio di scrivere un semplice, banale bollettino. Perché dietro quelle cifre, quelle statistiche, quei progetti ci sono le persone. Le persone sottratte alla guerra. Come quel progetto – appena concluso ma che è in via di rifinanziamento da parte del ministro degli esteri olandese – che prevede la “protezione” per più di ottomila donne e bambini. E dentro questo progetto, ci sono i corsi di formazione per mille e quattrocento donne.

“E magari non tutti si rendono conto di quanto siano importanti quei corsi, in quel paese, in quella situazione, in quella cultura”. A parlare così è Stella Pedrazzini, fino a ieri coordinatrice dei programmi di Intersos nello Yemen del nord. Dove ha vissuto per tre anni e quattro mesi. E lo conosce come pochi altri. Perché quei corsi consentono a donne che hanno subito violenze, che sono dovute scappare portandosi dietro solo i figli, di cominciare a progettare un futuro. “Magari imparando a lavorare il franchincenso”. Il magnifico incenso dello Yemen, quella resina che da millenni viene usata anche come medicinale.

Persone dietro i numeri, allora. Persone che contano molto più dei numeri. È il caso per esempio di un altro progetto. Di difficile realizzazione e che per ora non è stato possibile incrementare. Riguarda un centinaio di ragazzi (33 al Nord ma c’è anche il progetto-gemello al Sud che riguarda altri 63 ragazzi) che hanno ricevuto una borsa di studio. In questo caso, non si tratta di yemeniti ma di rifugiati. Di persone scappate da altre guerre, altri crisi. Vengono dalla Somalia, dall’Eritrea, Siria, Sudan, Iraq, Etiopia, Palestina. Studiano, studiano per rendersi autonomi. Per integrarsi.

Ma è un progetto difficile, si diceva. Perché negli ultimi anni la situazione è precipitata, perché l’edilizia scolastica non è stata risparmiata dalla guerra, perché i rifugiati hanno difficoltà a muoversi: possono essere arrestati con metodi “spicci”, accusati di ingresso illegale o peggio di far parte di fazioni contrarie a chi guida il paese. Difficoltà, dunque. Ma è solo una, una fra le migliaia che si incontrano quotidianamente. Difficoltà legata alle relazioni di potere, o alle differenze culturali. L’elenco dei problemi sarebbe interminabile. E allora viene spontanea una domanda: come si opera in un paese in guerra? In una lunga, drammatica – anzi sembra la più drammatica a giudicare dalle conseguenze – guerra? “Per una risposta esauriente occorrerebbe un libro”. In pillole, invece? “Bisogna capire che nonostante il coordinamento e lo sforzo delle organizzazioni umanitarie, che si interfacciano con le autorità con una sola voce, bisogna abituarsi ad accettare anche i limiti e le condizioni imposte dal governo ospite. Con una barra precisa però: Il rispetto del diritto internazionale e dei principi e valori umanitari. Col rispetto dei diritti delle vittime”.

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