Site icon atlante guerre

Migrazione, l’Asia come origine e meta

Nessuna rotta migratoria tra le prime 15 mondiali conduce verso i Paesi dell’Unione Europa, mentre molte di queste riguardano invece l’Asia e il Pacifico. A rivelarlo è il rapporto Onu sulle migrazioni internazionali, pubblicato in occasione della Giornata internazionale dei migranti 2017.

Nel mondo quindi circa 258 milioni di persone hanno lasciato il proprio paese di nascita per vivere in altre nazioni con un aumento del 49 per cento rispetto al 2000, quando erano 173 milioni, e del 18 per cento rispetto al 2010, quando si arrivava a 220 milioni.

Dai dati emerge che oltre il 60 per cento di tutti i migranti internazionali vive in Asia (80 milioni) ed Europa (78 milioni). Nel Nord America se ne contano 58 milioni, in Africa 25.

L’Asia è il primo continente nel quale la gente lascia il proprio Paese: 106 milioni su 258. Il primo Stato è l’India, ben piazzati ci sono anche Cina, Bangladesh e Pakistan.

Differente il dato sulla rotta più battuta: è quella che va dal Messico agli Stati Uniti (12,7 milioni di persone nel 2016, erano 9,4 nel 2000), seguita a distanza da quella che va dall’India all’Arabia Saudita (3,3 milioni, erano 700mila).

Che la popolazione asiatica fosse in movimento non è  una novità. Già dal dossier del 2016 redatto dalla Caritas “Divieto di accesso. Flussi migratori e diritti negati” si rilevava che nel 2015, su 244 milioni di migranti nel mondo, il 43% è nato in Asia, il 25% in Europa, il 15% in America latina e Caraibi e che soltanto il 14% arriva dall’Africa. Il dossier rilevava poi che il tragitto maggiormente in crescita era quello Africa-Asia.

A livello normativo i Paesi asiatici dell’ASEAN (vedi il box Chi fa cosa) iniziarono a parlare della questione migrazione nel 1999, con la Dichiarazione di Bangkok sul contrasto all’immigrazione illegale. Il documento venne sottoscritto dai membri dell’Associazione e da altri Paesi della regione dell’Asia-Pacifico (Cina e Australia, per esempio). Nel testo si trovava già allora la  preoccupazione per l’aumento costante e progressivo dei flussi migratori nella regione, dovuto ai conflitti militari, alle persecuzioni religiose e ai disastri naturali.

Una preoccupazione che non è servita: molti sono i fattori che fanno capire come sulla questione buona accoglienza molti Stati siano ancora ben lontani. Ad oggi, per esempio, solo due Stati membri dell’Associazione (Cambogia e Filippine) hanno adottato la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati del 1951.

Nel biennio 2014-15, l’UNHCR aveva registrato circa 95mila sbarchi di navi-peschereccio alla deriva nel Mare delle Andamane e nel Golfo del Bengala, che avevano Thailandia e Malesia come principali siti di approdo. La  Thailandia è però solita rimpatriare deliberatamente ogni anno centinaia di rifugiati e richiedenti asilo appartenenti a diversi gruppi etnici (Rohingya, Lao Hmong, Khmer Krom e Chin) e la Malesia, offre ospitalità a rifugiati provenienti dal Myanmar e da altri Paesi asiatici,  ma senza fornire loro documenti anagrafici e diritto di cittadinanza.

Un altro ragionamento va fatto sull’Indonesia, il principale Paese di transito per i flussi di immigrazione illegale diretti verso l’Australia.  Indonesia e Australia cooperano dal 2002 sul tema dell’immigrazione illegale e hanno istituito il Bali Process, forum di dialogo internazionale per governare il fenomeno migratorio e arrestare il traffico di esseri umani nella regione dell’Asia-Pacifico. La Marina militare australiana è autorizzata a respingere i migranti irregolari verso la Papua Nuova Guinea, Nauru e Christmas Island, dove sono stati installati centri di detenzione offshore sotto lo stretto controllo australiano.

Human Rights Watch ha denunciato pubblicamente le condizioni degradanti di questi centri chiamati Illegal Maritime Arrivals (IMA).

Anche se i Governi hanno dimostrato negli anni di essere poco inclini ad allentare le restrizioni alla libera circolazione delle persone nello spazio ASEAN, giustificando molto spesso la scelta con ragioni di ordine sanitario, l’Associazione ha sottoscritto nel 2012 la Dichiarazione sui diritti umani, che sancisce per la prima volta nel panorama asiatico il diritto di ciascun individuo a ricevere l’assistenza necessaria per l’ottenimento dell’asilo in uno Stato membro dell’Associazione.

Next: Agenda 2030: i passi delle sfide globali
Exit mobile version