Site icon atlante guerre

Bolivia: un golpe anomalo

Lunedì 11 ottobre, il presidente boliviano Evo Morales si è dimesso, “per evitare una guerra civile”, ma chiamando “un golpe” le pressioni dei vertici militari, e l’aperto schieramento della polizia di La Paz a favore dei manifestanti durante le violente proteste, seguite alle irregolarità del voto presidenziale del 20 ottobre. Dopo tre settimane di polemiche e violenze fra i sostenitori di Carlos Mesa, candidato dell’opposizione, e quelli di Morales, e l’accertamento dei brogli da parte degli osservatori dell’Organizzazione degli Stati americani, Morales aveva concesso nuove elezioni, chiarendo che non si sarebbe ricandidato. 

Ma l’intervento del generale Williams Kaliman, capo di stato maggiore dell’esercito boliviano, che ha pubblicamente richiesto a Morales di dimettersi “nell’interesse della pace e della stabilità”, ha fatto saltare ogni equilibrio, già provato dagli attacchi dei violenti comitati civici pro Mesa, che non hanno risparmiato le case dello stesso Morales e della sorella a Cochabamba, roccaforte del primo leader indigeno dell’America latina. Ed è proprio nella città andina che Morales si è ritirato. Per ora, non accoglie l’offerta di asilo politico giunta dal Messico di Lopez Obrador.

Anche il Messico, nelle parole del ministro degli esteri, definisce un golpe i fatti boliviani: seguito in questo da Cuba, Nicaragua, Venezuela, Russia. Mentre l’Onu e un vasto schieramento di altri Stati insistono soprattutto sulla fine delle violenze, sulla ricerca di soluzioni pacifiche, e su nuove elezioni, questa volta garantite da osservatori internazionali. Comunque, l’intervento pesante dei vertici militari ha avuto l’effetto di rievocare scenari sudamericani preoccupanti, e nelle parole della BBC, “fa poco per migliorare lo stato della democrazia”.

Ma il deficit di democrazia in Bolivia è emerso nel paradossale esito delle elezioni presidenziale, ma viene da lontano: al secondo giorno di spoglio delle schede il vantaggio su Mesa non garantiva a Morales la rielezione diretta, ma dopo un black-out di 24 ore una valanga di voti a suo favore lo portava alla vittoria e al suo quarto mandato. Immediate le denunce, e tempestiva la supervisione dell’Oas, che denunciava i brogli . E non è l’unica violazione delle regole democratiche che grava su Morales, dopo 13 anni alla guida del Paese. Già dalle precedenti elezioni del 2014 la costituzione avrebbe impedito all’ex dirigente dei cocaleros di presentarsi per un terzo mandato. Solo le pressioni della piazza e della magistratura lo avevano indotto a indire un referendum che lo autorizzasse. E malgrado l’esito non gli fosse favorevole, si appellò alla Corte costituzionale, riuscendo infine a farsi rieleggere. E a riproporsi per un quarto mandato.

Ma la Bolivia di Morales non è il Venezuela di Maduro. Al deficit democratico fa da contraltare una crescita economica di quasi il 5% l’anno nell’ultimo decennio. Una ricchezza che, per una volta, non si è concentrata in poche mani. Praticamente eliminata la povertà estrema, che all’inizio del millennio ancora colpiva vasta parte della popolazione, un servizio sanitario e un sistema educativo in netto miglioramento. Per una volta, le proteste non hanno la crisi economica sullo sfondo. Ma la parte della popolazione che gode di maggior benessere, specie intorno a Santa Cruz, fra allevatori non indigeni, e giovani ansiosi di rinnovamento, ha trovato ora nei brogli del 20 ottobre il caso che ha scatenato, oltre alle proteste, anche le violenze verso i sostenitori di Morales.

Per il momento, in Bolivia regna il caos, sia nelle strade, dove gli scontri fra le due parti continuano in tutte le regioni, che al livello istituzionale. Dopo Morales, hanno dato le dimissioni sia il presidente del senato che quello della camera, lasciando alla vicepresidente del senato Jeanine Áñez, dell’opposizione, il compito di indire nuove elezioni. Con il problema di dover far approvare il provvedimento a un parlamento a maggioranza governativa.

Alla “fine di una tirannia” hanno inneggiato da parte loro sia Donald Trump, che il presidente brasiliano  Jair Bolsonaro. Ma con le dimissioni di un gran numero di ministri, il perdurare e l’aggravarsi delle violenze, e un cammino istituzionale tortuoso e incerto, la Bolivia è in fiamme, e gli odi sociali che questi giorni hanno fatto esplodere saranno ferite difficili da sanare.

(Red/Ma.Sa)

nell’immagine, l’insediamento di Morales nelle elezioni del 2019

aggiornato alle ore 2 del mattino ora italiana

Next: Georgia: quando il cinema fa paura
Exit mobile version