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Dossier/ Intrecciando futuro: donne, femminismi e resistenze/2

di Silvia Carradori e Alice Pistolesi 

Dagli anni Novanta in poi, e sulla scia del grande cambiamento all’interno dei movimenti sociali che è stata la diffusione del pensiero decoloniale, ha trovato sempre più spazio una nuova idea di economia, che non prende in considerazione l’ambito produttivo, ma lo interseca con l’ambientalismo e il femminismo. Questa è l’economia femminista, una teoria economica e allo stesso tempo un’azione, basata sui valori di anticapitalismo, antirazzismo, antipatriarcato ed ecologia.

Questo tipo di economia critica quella ufficiale (dominante), che si presenta come qualcosa di immutabile e che invece ha caratteristiche ben definite: è capitalista, eteropatriarcale e neocolonialista; ha come obiettivo l’accumulazione del capitale nelle mani di poche persone; proclama una presunta libertà di mercato, ma senza accennare ai costi a livello ecologico, sanitario e sociale; lascia nell’invisibilità tutto il lavoro che si realizza in ambito domestico. L’economia femminista si presenta come un’alternativa: il (neo)capitalismo si fonda sul capitale e la vita è al servizio di questo, come una merce, mentre l’economia femminista ribalta quest’ordine e mette la vita e la sua cura al centro. Se la vita è il nuovo fulcro, allora è chiaro che tutto quello che è correlato alla sua tutela diventa l’elemento più importante. Seguendo questo ragionamento, per esempio, l’ambito della cura è parte dell’umanità tanto quanto la fragilità dei corpi che hanno bisogno di quella cura per poter vivere.

Ecco, quindi, che tutto il lavoro domestico e di assistenza diventa centrale per la conservazione della vita. Allo stesso tempo, se nell’economia ufficiale quest’ambito è quasi esclusivamente appannaggio delle donne, in questo nuovo percorso non è prevista nessuna divisione del lavoro basata sul genere. Uno dei punti fondamentali è, infatti, la ripartizione equa di compiti e riconoscimenti (il salario, per esempio) e l’alleggerimento del carico di lavoro che in genere grava maggiormente sulla popolazione femminile. Un altro punto cruciale dell’economia femminista è l’agroecologia, ovvero, un uso della terra per coltivare, allevare, produrre energia, che sia rispettoso del ciclo della natura. Questo va di pari passo anche con il riconoscimento della validità delle pratiche ancestrali e la possibilità di avere accesso libero ai semi, sempre rispettando la composizione e la storia dei territori.

Quest’ultimo argomento è una parte saliente dell’economia femminista: negli ultimi decenni le multinazionali hanno monopolizzato la produzione e la distribuzione dei semi, rivendendoli ai contadini a prezzi rialzati e con sostanziali modifiche alla composizione originale (semi ogm). In alcuni Stati, per esempio, è vietato fare scambio di semi fra comunità per non togliere una fetta di mercato alle multinazionali. Al contrario, l’economia femminista punta alla sovranità alimentare dei popoli, cioè alla possibilità per ognuno di decidere cosa coltivare e come farlo, sempre nel rispetto dell’ambiente, e di avere accesso autonomo alla produzione, alla tutela e allo scambio dei semi tradizionali. Sia nella produzione, che nel prendere decisioni a livello locale e globale, ci sono alcune domande che guidano questa rivoluzione economica: è veramente indispensabile? Si sta favorendo la vita e il benessere di tutte le persone? L’ambiente viene rispettato? Le risposte sono le necessità della popolazione a discapito della produttività e del reddito. Prendendo come guida questi tre quesiti, l’economia femminista afferma che è possibile pensare a nuovo modello economico, e che questo modello prende forza dall’annullamento dei rapporti di subalternità (umanità/natura, uomo/donna, nord/sud, bianco/nero) per costruire un modo di vivere realmente sostenibile.

In questo dossier, che completa la precedente uscita, si analizzano alcuni esempi di movimenti femminili, femministi e di resistenza africani, asiatici ed europei.

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