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Droni militari: la guerra del futuro

A cura di Lucia Frigo

Li chiamano Unmanned Aeral Vehicles, Aeromobili a Pilotaggio Remoto, e sono l’emblema di come la tecnologia abbia modificato radicalmente il modo di fare la guerra: i droni militari sono diventati famosi dopo il massiccio uso che ne hanno fatto gli Stati Uniti in paesi come Yemen, Afghanistan, Iraq e Somalia, e negli ultimi vent’anni sono circa 30 i paesi ad averli inclusi tra i propri armamenti, in una corsa frenetica all’acquisto e allo sviluppo di tecnologie sempre più all’avanguardia.

I droni sono infatti velivoli a pilotaggio remoto, che non richiedono – a differenza dei normali aeromobili – la presenza di un pilota a bordo: questo permette loro di essere incredibilmente leggeri, talvolta molto piccoli, e di essere impiegati in guerra per gli scopi più diversi. L’industria bellica ha sviluppato droni con funzioni di sorveglianza, di ricognizione armata o meno, e di attacco, con la capacità di trasportare diversi missili e cariche esplosive.

 

 

 

 

Vantaggi e svantaggi dell’impiego di droni militari

Un tipo di guerra basata su questi dispositivi permette le cosiddette “esecuzioni mirate” (“targeted killing”), ovvero gli attacchi specifici e precisi a obiettivi anche lontani dalle linee di fuoco. Per questo, molti Paesi hanno impiegato queste tecnologie nella lotta al terrorismo in Africa e in Medio Oriente a partire dal 2001, motivandole con la possibilità di ridurre le vittime civili dei conflitti e di evitare l’escalation della situazione in scontri armati più pesanti. Inoltre, i droni più moderni possono restare in volo anche per molte ore senza necessità di rifornimento, mentre piloti in cabine di controllo a centinaia di chilometri di distanza possono darsi il cambio e farsi assistere dagli esperti prima di prendere una decisione.

Ad attirare gli eserciti all’investimento in queste tecnologie sono i vantaggi operativi: senza dover mettere a rischio i propri uomini, i comandanti militari possono spingere i loro occhi ed orecchie – ma molto spesso anche le proprie bombe – sempre più all’interno dei confini altrui. Guardando alle statistiche, il rapporto tra costo ed efficacia di questi aeromobili è più vantaggioso di armi “tradizionali”.

Rimangono però forti perplessità della comunità internazionale nei confronti di questo tipo di warfare: è ancora poco chiara la posizione del diritto internazionale in materia (Vedi: focus 1) mentre il basso costo politico di questi strumenti li rende simili a giocattoli pericolosi: i governi sono più disposti ad autorizzare azioni militari che non causeranno rischio per il personale alla guida dei velivoli, ma l’operazione autorizzata rimane un attacco armato, in territorio nemico e con mezzi letali.
E se il principio cardine del diritto internazionale è quello della “guerra come ultima risorsa”, il rischio è quello per il decisore politico di ricorrere troppo facilmente alla forza armata, solo perché appare “facile e indolore” per le proprie truppe: uno scenario cupo anche alla luce di tutti quei casi in cui l’impiego di droni militari ha portato ad esecuzioni sbrigative ed erronee: famoso il caso dell’italiano Giovanni Lo Porto, ucciso da un drone statunitense per errore nel 2015 sul confine tra Afghanistan e Pakistan.

Rimangono dubbi etici e morali sull’impiego dei droni militari: la paura è quella di un conflitto sempre più “spersonalizzato”, in cui le operazioni sono condotte da operatori seduti al sicuro ad una scrivania mentre le conseguenze si ripercuotono a migliaia di chilometri di distanza, su vittime reali.

 

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