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Bavagli e violenze in Palestina

La violenza è arrivata anche al funerale della giornalista Shereen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio mentre seguiva un’incursione israeliana nel campo rifugiati di Jenin, in Cisgiordania.

Ai funerali della reporter di Al Jazeera, nel pomeriggio di ieri, si sono verificati violenti scontri mentre la salma veniva trasferita accompagnata da un lungo corteo dal Saint Louis French Hospital nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove il corpo di Abu Akleh è rimasto durante la notte. Nei video diffusi dalle emittenti palestinesi e da Al Jazeera la bara di Abu Akleh stava quasi cadendo, mentre la polizia stava cercando di strappare di mano bandiere palestinesi dalle persone che partecipavano al corteo. In migliaia le persone che hanno preso parte alle esequie della reporter.

Ad uccidere la giornalista, secondo il ministero della salute palestinese, sarebbero stati i proiettili delle forze israeliane e anche tutte le testimonianze raccolte sul campo confermano questa versione dei fatti che Israele nega. Salvo poi fare retromarcia. Lo Stato ebraico ha infatti ritrattato una precedente posizione che enfatizzava la presenza di combattenti palestinesi a Jenin e sollevava la possibilità che avessero ucciso loro Abu Akleh. L’esercito israeliano sta ora indagando se uno dei suoi soldati abbia sparato al giornalista. Al Jazeera scrive che, dopo la morte della collega, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella casa della famiglia di Abu Akleh, rimuovendo con la bandiera palestinese. L’uccisione della giornalista ha suscitato indignazione tra i palestinesi e si sono levati timori per un aumento delle tensioni a Gerusalemme. 

Essere giornalisti in Palestina

Il caso di Shereen Abu Akleh non è isolato.  Dal 2000 anno di inizio della Seconda Intifada, i giornalisti che hanno perso la vita in Palestina sono, secondo il sindacato palestinese della stampa, 46.Dal 1972 sarebbero 83, secondo l’agenzia stampa Wafa. Dall’inizio del 2020, inoltre, Israele ha imprigionato almeno 26 giornalisti palestinesi in Cisgiordania.

In una inchiesta del 5 aprile 2022 di The Intercept si riporta come, nella maggior parte dei casi, i giornalisti arrestati dalle forze israeliane sono stati posti in detenzione amministrativa per un periodo compreso tra sei settimane e un anno e mezzo. Alcuni di questi giornalisti sono stati incriminati, il più delle volte per istigazione e hanno trascorso in media circa otto mesi in detenzione. A marzo 2022, c’erano 10 giornalisti palestinesi nelle carceri israeliane con l’accusa relativa alla pubblicazione di materiale online, sia come privati ​​​​che attraverso il loro lavoro professionale. In alcuni casi, i giornalisti sono stati successivamente incriminati con accuse estranee alla loro attività professionale; in altri, non è stata presentata alcuna accusa e il giornalista è stato incarcerato senza processo e infine liberato.  Spesso il giornalista viene accusato di aver partecipato a un evento politico come fotografo o giornalista. Ma le autorità israeliane non fanno distinzione tra un giornalista che è sul campo come parte del suo lavoro e un partecipante attivo”.

Reporter senza frontiere, nella scheda dedicata alla Palestina scrive: “Il conflitto con Israele ha un grande impatto sui giornalisti palestinesi e coprire le proteste è estremamente pericoloso. I giornalisti sono soggetti ad arresti, violenze, distruzione di attrezzature, procedimenti legali e negazione dell’accreditamento. Hanno subito gravi ferite quando i soldati israeliani usano proiettili veri per disperdere i manifestanti.

Alta tensione in Cisgiordania

La giornalista uccisa a Jenin stava seguendo la situazione in Cisgiordania che è particolarmente tesa dal 9 aprile, quando i residenti di Jenin hanno celebrato il ventesimo anniversario dell’attacco israeliano al campo profughi della città, data che è diventata un simbolo della resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana. Il giorno dell’anniversario, le forze israeliane hanno lanciato un raid su larga scala nel campo, uccidendo un palestinese e ferendone altri 13.  Il 5 maggio altri 16 palestinesi erano rimasti feriti oggi quando la polizia di Israele aveva interrotto una protesta alla moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme est, dopo che il sito religioso era stato occupato da alcuni estremisti israeliani. Le proteste sono arrivate dopo la ripresa delle visite degli ebrei al sito e coincide con l’anniversario dell’indipendenza di Israele nel 1948. La polizia israeliana ha disperso i manifestanti palestinesi con manganelli e proiettili di gomma.

Le violenze avvenute nelle ultime settimane sulla Spianata delle moschee e il lancio di razzi da parte sia dalla Striscia di Gaza hanno sollevato i timori di un’ulteriore escalation del conflitto come avvenuto dal 6 al 21 maggio dello scorso anno a Gaza. Con gli scontri avvenuti il 2 maggio, giorno dell’Eid al Fitr (la fine del Ramadan) sono oltre 300 i palestinesi feriti. Il 30 aprile Hamas aveva minacciato di condurre attacchi contro le sinagoghe in caso di nuovi raid delle Forze di difesa israeliane (Idf) sul luogo sacro. “Chiunque prenderà la decisione di ripetere questa scena (di un dispiegamento di forze israeliane all’interno della moschea) prenderà la decisione di distruggere migliaia di sinagoghe in tutto il mondo”, ha affermato in un discorso Yahya Sinwar, capo di Hamas nella Striscia di Gaza.

L’ipotesi di una Guardia Civile Nazionale armata

Allo scenario di forte tensione si unisce anche il dibattito israeliano sulla creazione di una Guardia Civile Nazionale armata. Come riportato dal quotidiano Haaretz il primo ministro Naftali Bennett ha ipotizzato di istituire una nuova forza dell’ordine per combattere il terrorismo. Bennett ha per questa ragione incaricato il Consiglio di Sicurezza Nazionale di presentare “un piano ordinato e dotato di bilancio per stabilire una guardia civile nazionale” entro la fine di maggio.

*In copertina un fermoimmagine del video di Al Jazeera

di Red Al/Pi.

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