Site icon atlante guerre

L’ombra dei brogli sul ballottaggio turco

di Alessandro De Pascale

Già all’indomani della chiusura delle urne in Turchia, il processo elettorale è stato definito “poco trasparente” dalla missione di osservazione congiunta dell’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR) dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), della sua Assemblea Parlamentare (OSCE AP) e di quella del Consiglio d’Europa (RITMO). “Mi dispiace notare che il lavoro dell’amministrazione elettorale è stato privo di trasparenza, così come la schiacciante parzialità dei media pubblici e le limitazioni alla libertà di parola”, ha dichiarato l’ambasciatore norvegese Jan Petersen, a capo della missione dell’ODIHR, nel corso di una conferenza stampa tenutasi lunedì 15 maggio ad Ankara.

Si chiudeva così una nottata di risse nei seggi elettorali, accuse di brogli da parte dell’opposizione, richieste di riconteggio dei voti e, soprattutto, enormi ritardi nella registrazione dei voti da parte del Consiglio Elettorale Supremo (YSK). Le cui decisioni sono state definite dalla missione di osservatori internazionali come “non sufficientemente motivate”. Davanti alla sede del YSK ad Ankara, la notte di martedì 16 maggio, è stato peraltro arrestato un gruppo di persone che tenevano una “veglia per la democrazia”.

Detto ciò, al primo turno di domenica 14 maggio nessuno dei candidati alla presidenza ha superato la soglia del 50% necessaria per evitare di tornare alle urne. Eletto il nuovo Parlamento, dove il partito dell’attuale Presidente Recep Tayyip Erdogan (69 anni) ha mantenuto la maggioranza, la Turchia (85 milioni di abitanti) attende così il ballottaggio di domenica prossima per scegliere chi guiderà la nazione per i prossimi cinque anni. Secondo alcuni analisti gli elettori potrebbero voler evitare che coalizioni diverse gestiscano il ramo esecutivo (il Governo) e quello legislativo (il Parlamento), spostando i propri voti sull’attuale leader turco.

Erdogan, ininterrottamente al potere da vent’anni, in corsa col suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) vicino alla Fratellanza Musulmana e in coalizione con altre formazioni di destra, a partire dal suo storico alleato Partito del Movimento Nazionalista (MHP), al primo turno si è fermato al 49,5% dei consensi. È la prima volta che il leader più longevo della storia della Turchia finisce al ballottaggio. La sua campagna elettorale è stata tutta incentrata sul ruolo acquisito dal Paese a livello internazionale, sulla realizzazione di infrastrutture, sottolineando i progressi nel campo della difesa e della tecnologia. Promettendo inoltre l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici e delle pensioni minime. Il cuore dell’Anatolia, suo zoccolo duro di elettorato continua a sostenerlo e il suo partito ha tenuto anche nelle grandi città, perdendo però consensi nel sud-est del Paese, dove il 6 febbraio ci sono stati due forti terremoti: 50mila morti, circa 14 milioni di persone colpite (il 16% della popolazione), miliardi di euro di danni.

Kemal Kilicdaroglu (74 anni), alla guida della Nation Alliance formata da sei partiti dell’opposizione, ha invece raggiunto il 44,88%. Numero uno del Partito Popolare Repubblicano (CHP), della sua coalizione fa parte anche la Sinistra Verde (YSP) con dentro candidati curdi, rivelatisi da un lato determinanti per far finire Kilicdaroglu al ballottaggio ma additati per aver provocato dall’altro il possibile allontanamento della parte più a destra dell’elettorato. Il Partito Democratico dei Popoli (HDP) curdo ha deciso di non presentarsi direttamente a queste elezioni. Il governo turco di Erdogan lo ritiene l’ala politica del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato un’organizzazione terroristica. Dopo l’arresto negli anni di diversi parlamentari e dirigenti dell’HDP, a gennaio i conti del partito erano stati congelati e due settimane prima del voto c’era stata un’ondata di arresti nella sinistra curda, con 126 persone finite dietro le sbarre.

È ovviamente proprio dalla Nation Alliance che sono partite le principali accuse di brogli. Per il Vicepresidente del CHP, Muharrem Erkek, chi ha controllato oltre 201.000 sezioni in Turchia e all’estero ritiene di aver riscontrato irregolarità in 7.094 urne. “Voti che dovevano andare alla Sinistra Verde sono invece finiti ai nazionalisti dell’MHP alleati di Erdogan”, denuncia una nostra fonte che ha seguito il voto. La quale riporta un caso su tutti, che ritiene emblematico: “Nel villaggio curdo di Faysal Sariyildiz, ex deputato dell’HDP, all’MHP che normalmente nessuno vota essendo gli eredi dei Lupi Grigi (i nazionalisti turchi che ebbero tra le loro fila l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II, Alì Agca, nda) sono andate 233 preferenze, zero alla Sinistra Verde”.

I reclami per irregolarità elettorali sono comuni durante le elezioni turche. Mentre riguardo alla diaspora turca all’estero, alla quale Erdogan ha concesso di partecipare al voto nel 2014, la sua coalizione ha vinto al primo turno in 21 Paesi (Francia, Germania, Austria, Kosovo, Norvegia, Belgio, Olanda, Danimarca, Marocco, Algeria, Libia, Egitto, Libano, Giordania, Iraq, Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Malesia). In tutti gli altri in cui era previsto il voto l’ha spuntata l’opposizione. Anche se in termini percentuali, dai concittadini residenti all’estero, il presidente uscente ha ottenuto il 56% delle preferenze, molto più del 49% di voti ricevuti in patria.

La Nation Alliance, nonostante opinioni politiche divergenti, è stata formata in nome dell’inversione di tendenza rispetto all’era Erdogan nella quale a loro dire c’è stato un arretramento democratico e la repressione della libertà di parola e del dissenso. A tal proposito questa coalizione ha promesso la fine del presidenzialismo (a favore del ritorno ad un Repubblica parlamentare), maggiori libertà e migliori prospettive occupazionali. Per entrambi gli schieramenti, al centro della campagna elettorale c’è infatti l’economia che va a rotoli, con l’inflazione secondo i dati ufficiali al 44%, cui si aggiunge il forte calo del tenore di vita degli ultimi anni.

Al secondo turno, sul Presidente uscente Erdogan potrebbero confluire i voti dell’ultra-nazionalista di estrema destra Sinan Ogan (55 anni), a capo l’Alleanza Ancestrale Nazionalista (ATA) formata da tre formazioni politiche, che ha ottenuto il 5,17% dei consensi. Una percentuale che potrebbe ora essere determinante al ballottaggio, soprattutto in caso di un accordo con uno dei due candidati rimasti in corsa. Se per sostenere l’opposizione di Kilicdaroglu, Ogan chiede innanzitutto di rompere l’alleanza con i curdi, più naturale sarebbe quella con Erdogan. Anche perché fino al 2015 il leader dell’ATA faceva parte del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), tra gli alleati del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente uscente. Nello strizzare l’occhio agli elettori di Ogan e più in generale ai nazionilisti, anche Kilicdaroglu ha abbandonato i toni concilianti e giovedì ha dichiarato che se vincerà manderà a casa «10 milioni di profughi» (dai dati ufficiali i siriani in Turchia sono 3,7 milioni sui 5,5 milioni di stranieri presenti nel Paese).

Tra i candidati c’era inoltre Muharrem Ince (59 anni) dell’Homeland Party, l’unico candidato senza un’alleanza a sostenerlo. Tre giorni prima del voto aveva poi deciso di ritirarsi, per evitare di erodere voti all’opposizione unita guidata da Kilicdaroglu. Il tempo per stampare nuove schede elettorali senza il suo nome non c’era, ma i voti da lui ottenuti non sono stati dichiarati nulli e gli è stato ugualmente attribuito lo 0,43% dei consensi (un sondaggio realizzato tra l’1 e il 3 aprile da MetroPOLL lo dava al 5%). L’affluenza è stata record (86,98%, sei punti percentuali in più della media di lungo periodo), con oltre 56 milioni di votanti.

L’8% degli aventi diritto sono giovanissimi che potevano recarsi alle urne per la prima volta nella loro vita. Una platea di potenziali indecisi corteggiata da tutti i candidati. Fondamentale anche il voto delle donne, che rappresentano ben 50,6% dell’intero elettorato. Se due decenni fa quelle conservatrici si ritiene abbiano contribuito all’elezione di Erdogan, secondo diversi analisti quel sostegno si sarebbe nel tempo ridotto a causa di alcune scelte e dichiarazioni pubbliche del presidente uscente. Grandi proteste ha ad esempio suscitato la decisione presa nell’estate 2021 di fa ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul, l’accordo internazionale volto a proteggere le donne dalla violenza domestica. Vespaio di polemiche e indignazione anche quando Erdogan ha affermato che maschi e femmine non possono essere trattati allo stesso modo, oppure quando ha definito “mezze donne” quelle che non hanno figli.

Nella foto in copertina, manifesti a Istanbul con i volti dei due sfidanti Erdogan e Kilicdaroglu © Tolga Ildun/Shutterstock.com

Next: Le Filippine fra Cina e Stati Uniti sul mare conteso
Exit mobile version