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India: colpo di mano per limitare la libertà in Rete

di Stefano Bocconetti

Il 25 maggio resterà una brutta data per l’india, per ciò che resta della sua libertà d’espressione. Perché all’alba, un’unità speciale della polizia di Delhi – quella che si occupa dei casi di sicurezza nazionale – ha fatto irruzione negli uffici locali di Twitter, il social network più utilizzato nel paese. Sono emersi pochi particolari ma si sa che gli agenti hanno preteso ed ottenuto un incontro coi massimi dirigenti. Ufficialmente stavano indagando su un tweet, uno dei miliardi di messaggi che quotidianamente si scambiano sul social. Questo però era particolare: annunciava che il partito del Congresso, all’opposizione del governo Modi, aveva allestito un “toolkit” – una serie di strumenti digitali – per screditare l’esecutivo. Software, foto – vere e false -, video – anche questi, alcuni veri assieme a quelli dichiaratamente “taroccati” – che dovevano essere usati per fare campagna e denunciare la devastante gestione governativa della pandemia.

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L’India è un Paese – ricordiamolo – che ha contato fino ad ora trecentomila morti di Covid e che solo all’inizio del mese, faceva registrare quattrocentomila nuovi casi al giorno. Le “istruzioni” per gli agit prop dell’opposizione lasciavano intendere che bisognasse ricorrere anche ad iniziative clamorose. Al limite ed oltre la legalità.

Immediata la reazione del Governo. Ma immediata anche la reazione del partito del Congresso che ha avuto facilità a dimostrare che quel “toolkit” era assolutamente falso: un fake. E pure fatto male. Bastava scaricare il materiale per accorgersi che anche il logo del partito era riprodotto in modo grossolano. Falso, talmente falso che un verificatore indipendente ci ha messo meno di dieci minuti ad accertare l’hackeraggio. Eppure, nonostante questo, la polizia ha fatto irruzione negli uffici di Twitter. Dopo che il messaggio era stato cancellato. Ma non è tutto. C’è dell’altro.

La data del 25 maggio sarà purtroppo ricordata perché a mezzanotte è entrata in vigore in India la nuova legge che regola “le tecnologia dell’informazione sulle piattaforme”. Un insieme di norme che una coalizione di dieci organizzazioni internazionali – fra le quali l’autorevolissima AccessNow – definisce semplicemente “autoritarismo digitale”.

In pillole: in India non esisterà più la rete come si è conosciuta fino ad ora. Il Governo – sì, proprio il potere esecutivo – potrà controllare e chiedere la cancellazione di qualsiasi parere, immagine, commento, giudicato lesivo “dell’interesse pubblico e dell’integrità dell’India”. Di più: le piattaforme dovranno consegnare alla polizia tutte le informazioni su loro semplice richiesta. Della polizia, sia chiaro, non dei giudici. Ed ancora, più nel dettaglio: anche i social che utilizzano messaggistica criptata – WhatsApp, per capire – dovranno fornire agli agenti il nome e dati del cosiddetto “primo creatore”, la persona cioè che ha avviato una discussione on line.

Modi ha concesso ancora un po’ di tempo ai giganti del settore per adeguarsi. Settimane, poco più. WhatsApp e Twitter ancora non hanno deciso cosa fare: “Stiamo valutando”. Non vorrebbero perdere un mercato da un miliardo e trecento milioni di persone ma sanno che violare così brutalmente la privacy li metterebbe nell’angolo. Nel mercato del sud est asiatico e nel resto del mondo. Anche se c’è un precedente, di poco tempo fa, che non fa ben sperare. A febbraio, durante le drammatiche proteste dei contadini indiani. Il governo chiese a Twitter di cancellare tutti i messaggi ostile a Modi, alle sue politiche, chiese di cancellare tutte le immagini degli abusi della polizia. All’inizio, la piattaforma rispose di no. Poi sotto la minaccia degli arresti dei dirigenti, cancellò tutto quello che dispiaceva al Governo.

In copertina: Purple Freedom, uno scatto di Kristina V

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