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La Pace e la Giustizia cominciano a casa nostra

di Raffaele Crocco

Sentire parlare di Peppino Impastato per chi lo ha conosciuto, chi è stato con lui negli anni di lotta, ti stringe lo stomaco, ti fa schiumare rabbia. Ti prendono e ti portano in una specie di pellegrinaggio nei suoi luoghi, che sono anche e ancora i loro luoghi. La casa di Cinisi dove viveva con la famiglia prima che il padre – mafioso – lo cacciasse è diventata adesso sede della Fondazione. Poco più in là – esattamente cento passi, per chi ama le citazioni – il palazzo abitato da chi lo ha voluto morto, il capomafia Gaetano Badalamenti, ora sequestrato e diventato la biblioteca comunale. Poi, si va nel territorio e si arriva nel punto preciso dove lo hanno ucciso. La casa diroccata è lì, con le tracce, le prove di quell’assassinio: catturato, poi picchiato, stordito, chissà se morto prima di legargli la dinamite addosso e metterlo sui binari della ferrovia – proprio lì davanti, a cinque metri – e farlo saltare in aria.

E’ un racconto doloroso, ancora e sempre doloroso, vivo nella memoria di chi lottava con Peppino, di chi era con lui nei pomeriggi di volantinaggio o di incontro, di chi saliva per aiutarlo nelle trasmissioni di quella Radio Aut che era diventata un punto di riferimento, di denuncia, di libertà e che ha contribuito a farlo uccidere. Per chi ascolta, invece, quello che viene raccontato è raggelante, deprimente, fastidiosamente attuale. Le ragioni per cui Impastato lottava ed è morto sono ancora lì, immobili, congelate come ghiaccio in un’era glaciale. La mafia organizza e comanda in Sicilia esattamente come nel 1978. La sua capacità di infiltrarsi nella vita quotidiana di ogni persona – determinandone destino, vita sociale, affetti – è immutata. La Sicilia vive di mafia, la respira suo malgrado e lo Stato continua ad essere al massimo un luogo dello spirito, lontano e distratto come una divinità cattiva. Attorno a tutto questo, la politica è incapace ancora oggi di rispondere: la ricchezza resta distribuita in modo ingiusto e diseguale, i diritti sono solo per pochi, la società resta strutturata per censo, capacità di violenza, ricchezza.

Così, si sta immobili, davanti al luogo dove Impastato è morto e non si capisce. Non si capisce dove abbiamo sbagliato in questi assurdi 42 anni. Non si capisce perché un cambiamento che pareva possibile – perché era nelle nostre anime prima che nell’aria o nella politica – sia impallidito e scomparso, diventando un’utopia di pochi. Non si capisce perché accettiamo che la mafia, in ogni sua forma, ci rubi 130miliardi all’anno e che altrettanti vengano fatti sparire da chi si crede furbo ed evade le tasse, non rispettando le regole e la vita degli altri.

Non si capisce perché abbiamo smesso di costruire un mondo migliore. Il 9 maggio 1978 Peppino Impastato moriva a Cinisi, ucciso anche dalla mafia. Da allora, lavandoci l’anima e la coscienza in tanti pellegrinaggi, ricordandolo commossi e ammirati ogni anno, lo abbiamo ucciso anche noi, ogni giorno, dimenticandoci che potevamo e possiamo cambiare, in meglio, il Mondo.

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