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Le mani del Che

A 50 anni dalla scomparsa di Ernesto Che Guevara l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo  propone in esclusiva nuovi testi con particolari inediti sulla sua vita e sulla sua morte.

di Raffale Crocco*

Era tranquillo davanti alla porta dell’Hotel Torino, Antonio Arguedas. Parlava con qualcuno – non ricorda chi – in una giornata autunnale come tante di quel difficile 1969 a La Paz. In un attimo si ritrovò a terra, in un lago di sangue, il suo sangue. Una raffica di mitra, sparata da un’auto fuggita subito, lo aveva colpito.

Non morì. In qualche modo, i medici lo salvarono. L’attentato non passò certo inosservato. Arguedas non era un uomo qualunque. Era stato per qualche tempo ministro degli Interni di quel governo democratico che ora traballava sotto i colpi dei militari, vogliosi di golpe. Era stato lui, tra il 1966 e il 1967, a coordinare la lotta contro “Che” Guevara, calato in Bolivia con la sua rivoluzione. Aveva fermato il tentativo guevariano uccidendo il Comandante in una scuola de La Higuera, pugno di case del sud est boliviano.

Non era un uomo qualunque, insomma. Il tentativo di assassinarlo fece scalpore. Qualche giorno dopo, mentre si riprendeva faticosamente, chiese che cercassero Victor Zannier. Zannier era un giornalista, abbastanza vicino al Partito comunista boliviano. Si precipitò in ospedale e trovò Arguedas ad aspettarlo.

Il colloquio fu breve. “Vai a casa mia – gli disse il ferito -. Dovrai lavorare un po’, ma interrate nel pavimento troverai la maschera funeraria del “Che” e le sue mani. Prendile e portale via. Fanne ciò che credi”.

Zannier uscì dall’ospedale sconcertato. Non capiva perché l’ex ministro, uno dei protagonisti della lotta contro Guevara, avesse voluto dare lui quei reperti. Le mani del “Che” erano una specie di reliquia. Tutto il mondo sapeva che gli erano state tagliate, durante l’autopsia, per dimostrare che era morto, ma tutti sapevano anche che erano misteriosamente sparite, assieme al cadavere.

Ora, all’improvviso, spuntavano nella casa di chi lo aveva combattuto e ne aveva forse decretato la morte. Erano un tesoro pericoloso, dato il clima nel Paese. Zannier, comunque, andò e scavò, aiutato dal figlio dell’ex ministro. Trovò un’urna. Una placca recitava: “Comandante Ernesto Che Guevara”, con la data di nascita e di morte.

Con l’urna nascosta in una borsa, andò al ristorante El Prado, dove era solito incontrare gli amici. Sedette al tavolo di sempre, con la borsa al fianco, bevendo qualcosa. Arrivarono Alberto Crespo Rodas e Josè Maria Alvarado, tutti del Partito  comunista, ma lui non parlò. Fu solo quando al gruppo si aggregò Jorge Sattori Rivera che Zannier si rilassò. Era lui l’uomo che aspettava per decidere “che fare”.

Tra un bicchiere e l’altro, il giornalista spiegò a Sattori cosa nascondeva nella borsa. Decisero assieme che l’unica soluzione era portare le mani fuori dalla Bolivia, lontano, possibilmente a L’Avana. L’impresa era tutt’altro che semplice. La Bolivia di quegli anni era paese violento, di spie, di militari che uccidevano facilmente. Sattori tenne le mani di Guevara a casa sua il tempo necessario per preparare la spedizione. Verso la fine di dicembre tutto era pronto e Zannier potè partire, accompagnato da un militante “fidato”, Juan Coronel. Puntarono su Mosca, ma non potevano arrivarci direttamente. Così, giunsero a Parigi, dove chiesero un visto d’ingresso per l’Urss al consolato sovietico. Gli risposero di passare dopo 15 giorni.

Era un disastro, i resti del “Che” scottavano. Provarono con Roma, senza ottenere risultato. Tornato in Francia, Zannier provò ad usare un altro passaporto, chiedendo un visto per la Cecoslovacchia. Nulla. Sembrava finita, invece la soluzione era a portata di mano. Il nuovo passaporto aveva un visto per la Germania Orientale. Zannier la raggiunse in treno e là si mise in contatto con un cubano che conosceva. Senza mai raccontare apertamente le ragioni del suo viaggio, riuscì ad ottenere un visto ed arrivò a Mosca il 31 dicembre. L’arrivo all’hotel Ucraina, nella capitale, gli sembrò una liberazione. Venne contattato il primo gennaio da Igor Ribalkin, responsabile dei rapporti con i partiti latino americani per il Pcus. Fu lui a dirgli che un aereo dell’Aeroflot era pronto per portarlo a L’Avana. Per tredici ore volarono sull’oceano, fermandosi alle Isole Bermudas per uno scalo tecnico. All’epoca le isole erano una base militare inglese affittata agli statunitensi. Per qualche ora rimasero lì, guardati a vista dai marines, involontari guardiani anche delle mani di Ernesto “Che” Guevara.

L’arrivo a L’Avana, qualche ora dopo, fu assolutamente anonimo. Non ci furono feste o ricevimenti. Zannier sbarcò, accolto da alcuni funzionari cubani. Solo a tarda notte incontrò Fidel Castro.

Da allora le mani di Guevara sono all’Avana. Zannier e Arguedas erano ancora vivi quando a metà degli anni ’90 ho raccolto questa storia.. Abitavano a La Paz, con i loro ricordi, le avventure. Ad Arguedas qualcuno chiedeva  ancora perché volle far arrivare quelle reliquie a Cuba. “Per il rispetto che mi ispira ogni cadavere, come insegna la tradizione cristiana”, rispondeva e bevendo mate di coca chiudeva la conversazione, con un sorriso sornione.

*Testo tratto da «Il Che dopo il Che» di Raffale Crocco (direttore Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo – 46° Parallelo)

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