Site icon atlante guerre

Lo schiaffo dell’Asean al Myanmar

L’Asean ha battuto un colpo e ha deciso di non invitare al suo prossimo summit di fine ottobre il generale Min Aung Hlaing, leader del governo golpista del Myanmar. La reazione non si è fatta attendere. Il generale ha detto ieri che gli altri nove Paesi, che col Myanmar fanno parte dell’Associazione regionale del Sudest asiatico (Asean), dovrebbero condividere la responsabilità di non aver contribuito a sedare la violenza che ha travolto la sua nazione da quando l’esercito ha preso il potere nel febbraio scorso. In un discorso trasmesso alla televisione ha accusato l’Associazione di non voler riconoscere il carattere violento dell’opposizione e ha aggiunto che il suo governo sta cercando di ripristinare pace e stabilità.

Il generale golpista Min Aung Hlaing: isolato

La sua risposta alla mossa è stato il tentativo maldestro di censurare la decisione senza precedenti dell’Asean che ha deciso di evitare la sua imbarazzante presenza na un consesso on invitarlo al prossimo summit in cui parteciperà anche Joe Biden. Cisarà invece un invito per una personalità birmana “non politica” ed è quindi da escludere che si possa trattare di un rappresentante del governo clandestino di unità nazionale. Ma lo schiaffo alla giunta rimane ed è la prima volta che i fautori della “non ingerenza” prendono una decisione tanto grave. Non espelleranno il Myanmar dall’Asean ma non saranno i golpisti in divisa a rappresentarlo.

La mossa dell’Asena, dopo un lungo negoziato, è senza precedenti e si deve a più fattori: alle pressioni internazionali ma anche al rifiuto della giunta di dare la possibilità all’inviato speciale Asean – il diplomatico del Brunei Erywan Yusof nominato in agosto per mediare – di poter incontrare in Myanmar detenuti politici come Aung San Suu Kyi o altri incarcerati dopo il golpe. Infine, il famoso piano in cinque punti, concordato mesi fa proprio col generale Min Aung Hlaing non ha fatto un solo passo avanti.

Tra i dieci Paesi membri dell’organismo regionale ce ne sono di più agguerriti – Malaysia, Singapore, Indonesia, e lo stesso Brunei, presidente di turno – e di più morbidi, come la Thailandia (che ha un premier ex generale) o il Vietnam che preferisce non disturbare i manovratori. Ma alla fine la decisione è stata presa all’unanimità e non deve aver scontentato nemmeno i cinesi, ritenuti i maggior sponsor della giunta ma che in realtà vorrebbero la fine del continuo stato di agitazione, ormai una sorta di guerra civile, che danneggia anche i loro affari e la stabilità regionale.

Le manifestazioni comunque non si fermano: anche ieri una marcia di protesta a Mandalay è stata attaccata dai militari. Il bilancio è di una ventina di dimostranti feriti mentre gli arresti sono almeno una decina. Mandalay ha visto proteste anti regime praticamente ogni giorno dal golpe militare del 1 febbraio, nonostante la durissima repressione militare. Ieri i golpisti hanno anche liberato con un’amnistia oltre 5.600 detenuti, primo effetto forse della mossa, seppur tardiva, dell’Asean.

(Red/Est)

Next: Colombia: lungo la rotta dei ‘caminantes’ venezuelani (2)
Exit mobile version