di Silvia Orri
La piccolissima superficie di Lampedusa è inversamente proporzionale all’enormità di situazioni, visioni del mondo, dinamiche societarie, problematiche e risorse che la caratterizzano. L’isola misura 20,2 km², non sono presenti semafori lungo le strade e non supera i 6.000 abitanti. È distante dall’Italia, per la precisione 205 km da Porto Empedocle; è un po’ più vicina alla Tunisia, per la precisione 167 km da Ras Kaboudja.
Il suo nome riecheggia spesso nelle nostre quotidianità. Cosa pensiamo sentendo nominare “Lampedusa”? Forse una delle spiagge più belle di tutto il mondo, forse le notizie riguardanti naufragi e salvataggi di migranti, forse un celebre romanzo novecentesco scritto da un principe solitario. Dipende, dipende da chi siamo e chi frequentiamo, dipende da cosa ci sta a cuore, dai nostri interessi e priorità. L’isola rispecchia proprio questa pluralità di sfaccettature e si presta ad essere terra che offre la possibilità di rafforzare le varie identità, tanto di chi cerca il selfie con i piedi immersi nelle limpide acque della Spiaggia dei Conigli quanto di chi abbia l’interesse di sostenere le attività solidaristiche e culturali atte ad una diffusione della realtà migratoria che sia il più autentica e profonda possibile. I vari volti di Lampedusa, però, fanno fatica a guardarsi negli occhi e molto spesso non dialogano tra loro, non scambiano occhiate e non cercano accenni d’intesa.
La parola chiave sembra essere “stagionale”: c’è un turismo strettamente legato all’estate, le attività produttive principali si sono concentrate nei mesi tra maggio ed ottobre abbandonando quelle che coprono tutto il ciclo dell’anno e purtroppo anche la comunicazione che fa riferimento alle rotte migratorie sembra esistere solo nei mesi caldi. Lampedusa esiste solo d’estate?
Chi mai affiancherebbe il termine “inverno” per descrivere l’isola? Lo fa benissimo Jakob Brossman nel suo film del 2015, per l’appunto, “Lampedusa d’inverno” (titolo originale “Lampedusa in winter”) in cui toglie i filtri delle acque cristalline, delle biciclettate tra le scogliere e delle immersioni nelle grotte mostrando le sfide che abitanti ed amministratori affrontano quando è tempo di indossare i berretti di lana ed il mare è agitato. Narra l’accaduto in cui il traghetto di collegamento con la Sicilia va in fiamme e le conseguenze che tanto i rifugiati quanto i pescatori si trovano ad affrontare. Spostamenti bloccati, proteste e scioperi che portano a carenze di cibo e litigi tra pezzi di popolazione stremati, ognuno con le proprie ragioni. In più, viene mostrato il ruolo e l’importanza dell’unica radio presente sull’isola, “Radio Delta”, che aggiorna gli isolani creando così un intreccio tra comunicazione radiofonica e comunicazione cinematografica che cattura. Il film viene proiettato in una piazzetta laterale all’affollata Via Roma che luccica di bicchieri riempiti con vini pregiati e propone souvenir marini in ricordo di splendide vacanze. Lo slancio di trasformare i luoghi pubblici e lanciare una scintilla di consapevolezza su quella Lampedusa al di là delle cartoline viene portato avanti dalla Biblioteca comunale IBBY Lampedusa che invita il regista alla proiezione ed impollina i passanti con le inedite ed inusuali immagini invernali di questa realtà cruda e contraddittoria. Paola La Rosa, volontari e volontarie ci accolgono con la gentilezza e la fierezza di chi le azioni verso un benessere comune le porta avanti tutti i giorni.
Bisogna cercare questo a Lampedusa. Bisogna cercare le alternative alle narrazioni consuetudinarie ed agli slogan. Perlustrando, ci si imbatterà sicuramente in “PortoM”, un progetto creato e portato avanti dal collettivo “Askavusa” il cui sottotitolo è “Pratiche di memoria politica comunità. Esposizione degli oggetti dei migranti”. Anche in questo caso le dinamiche e le situazioni che girano intorno allo svilupparsi e materializzarsi di un’idea sono complesse e troppo spesso si scontrano con il profitto e l’accaparramento di pezzi di storia. Alcune delle missioni del collettivo sono di smettere di tenere nascosto, palesare la verità, togliere le patine di ipocrisia, evitare di trovare delle scuse ed ammettere responsabilità. Riguardo a cosa? Alle morti nel Mediterraneo, agli interessi economico-politici che regolano le nostre vite, alle menzogne che ci raccontiamo e che ci permettono di vivere le nostre quotidianità senza rimorsi per quello che succede al di fuori dei nostri balconi e giardini. Askavusa ha deciso di esporre una selezione di oggetti appartenuti alle persone migranti, spesso recuperati all’interno della vecchia discarica dell’isola. Non più rifiuti ma fonti storiche, testimonianze. Non più oblio ma memoria, tragica memoria.
Il collettivo esprime la propria linea di pensiero mettendoci davanti ad una realtà talmente materiale ed umana che sprigiona un senso di inadeguatezza e privilegio disarmante. Su un pannello esplicativo spiega che ritengono che “le migrazioni siano il frutto delle politiche di sfruttamento e rapina che le potenze imperialiste praticano e hanno praticato nel corso degli ultimi secoli. Riteniamo che l’attuale situazione sia anche direttamente dovuta alle consapevoli leggi e politiche sulle migrazioni, prodotte in Europa a partire dalla metà degli anni ’80 dalle classi dirigenti continentali e nazionali, che hanno coscientemente prodotto gestioni emergenziali, frontiere militarizzate, morti in mare e nuovi schiavi. […] crediamo che tutto ciò che abbiamo sviluppato, chiamati dall’urgenza di colmare il vuoto lasciatoci dalle domande che questi oggetti ci ponevano, debba vedere il ruolo attivo, il punto di vista, la voce diretta, di quei popoli, di quelle società, di quelle culture, sul cui presunto “bisogno” di essere “migranti” l’occidente sfruttatore crediamo non si sia, colpevolmente, più di tanto voluto interrogare”. Qui ci si rende conto di quanta indifferenza contraddistingue le nostre vite. Quanta? Sarebbe bene chiederselo. Askavusa continua a dare input per rispondere a questa domanda anche attraverso una densa opera culturale che vede mettere in scena l’opera dei pupi, spettacoli di narrazione, le cantate di Giacomo Sferlazzo che sono come lezioni di storia.
Luoghi trasformati, oggetti rivitalizzati, cos’altro dona Lampedusa? Cosa non compare nelle guide turistiche che vale la pena di vedere? Il cimitero. Vale la pena esplorarlo, visitarlo, passarci del tempo. All’entrata, una poesia di Emily Dickinson:
“Provare lutto per la morte di chi
Non abbiamo mai visto –
Implica una parentela vitale
Fra l’anima loro – e la nostra –
Per uno sconosciuto – gli sconosciuti non piangono”.
Basterebbero queste parole per avvicinarsi a quel silenzio dell’anima che ci permette di entrare in contatto con chi è lontano dalle nostre menti e dai nostri corpi. Nel cimitero di Lampedusa trovano posto le persone rimaste senza un nome, annegate e le cui speranze, aspettative e prospettive si spera possano essere ripescate da chi verrà dopo di loro. Spazi sottoterra per anime rimaste sotto le onde, corpi il cui respiro è stato stroncato dal benessere di una parte di mondo. Ogni comodità, ogni mancata presa di consapevolezza ha un prezzo altissimo.
Qui, per lo meno, esiste un luogo in cui andare a chiedere scusa e rivolgere un pensiero a chi ha trovato la morte nell’intreccio degli accordi internazionali e degli stili di vita insostenibili. Esiste un luogo in cui è possibile domandarsi, sinceramente, quanto costa ogni nostra azione in termini di dignità globale. Quanti loculi ancora, quanta terra scavata, prima che la pace sia diffusa? Dal mare di Lampedusa emergono domande, dubbi e perplessità. Facciamoli emergere, non reprimiamoli e soprattutto, analizziamo le risposte che dentro e fuori di noi vogliamo dare.