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Armi chimiche: abolite ma non per tutti

Il 29 aprile è la giornata mondiale in ricordo delle vittime delle armi chimiche. Lo ricorda Archivio Disarmo che pubblica i dati dell’Associazione per l’abolizione delle armi chimiche (Opac). La  data è connessa al fatto che le armi chimiche, usate massicciamente nel corso della prima guerra mondiale, sono state bandite dalla comunità mondiale con un’apposita convenzione entrata in vigore proprio il 29 aprile del 1997. Ad oggi sono ben 193 Stati che aderiscono a tale Convenzione. Tra gli stati firmatari però solo Israele non ha ancora ratificato la Convenzione, firmata nel 1993.

In generale, la messa al bando delle armi chimiche è avvenuta: il 96,80 % degli arsenali è stato distrutto, dei 97 impianti di produzione esistenti 73 sono stati smantellatti, e 23 ristrutturati a scopi pacifici. E il 98% degli abitanti del mondo vive sotto la protezione del Trattato. Ma restano ancora 19 siti da ispezionare e l’attenzione dell’Opac è rivolta soprattutto a prevenire il rischio che tali armi si rendano disponibili per i gruppi terroristici. Ma  l’eccezione di Israele non è da trascurare. 

Sebbene Israele abbia aderito al Protocollo sulle armi di Ginevra del 1925 il 29 febbraio 1969, insieme ad altri paesi con scorte di armi chimiche come gli Stati Uniti, le ha mantenute fino ad oggi, come ”legittime armi di rappresaglia”. Lo scrive The Conversation, giovane ma autorevole blog britannico senza fine di lucro, che unisce una vasta rete di università di tutto il mondo:   “L’Egitto ha mantenuto a lungo un programma avanzato di armi chimiche; è stato sospettato di aver fornito armi di distruzione di massa in Siria nei primi anni ’70, e l’assistenza tecnologica all’Iraq alla fine degli anni ’70 e ’80. L’Iraq di Saddam ha anche minacciato Israele di attacchi di missili balistici con armi chimiche durante la prima guerra del Golfo. In questo clima, Israele ha trovato  motivo per non  rinunciare alla sua dotazione  di armi chimiche”.

Il programma fu avviato alla nascita di Israele, sotto il primo ministro israeliano David Ben-Gurion, che lo autorizzò solo con riluttanza. Sia lui che i successivi leader hanno esitato a introdurre tali armi nel conflitto arabo-israeliano, temendo che potessero scatenare una corsa agli armamenti a livello regionale. Nondimeno, anche prima della guerra arabo-israeliana del 1948, Israele iniziò le ricerche sulla guerra chimica, creando l’unità HEMED BEIT, antenato dell’Istituto israeliano per la ricerca biologica (IIBR) controllato dal governo.

Mentre il primo ministro Yitzhak Rabin cercava di porre fine all’ambiguità chimica di Israele firmando la Convenzione sulle armi chimiche, i governi successivi e l’establishment israeliano credono ancora nell’utilità di mantenere il proprio arsenale, considerando che, data la minaccia costituita dagli arsenali dei vicini, essa abbia un valore deterrente. E’ lo stesso The Conversation a segnalare il rischio di tale politica, che potrebbe portare a una escalation in tutta la regione. E ammonisce: “E’ tempo che Israele riveli la verità sul suo programma di armi chimiche”.

Le preoccupazioni di Israele non sono per altro infondate: com’è noto, ad esempio,  sono circolate notizie sull’uso di armi chimiche durante il conflitto in Siria e, andando al passato, sull’uso di armi chimiche in altri Paesi come l’Irak di Saddam Hussein che se ne servì per reprimere la resistenza curda. Restano inoltre  dubbi sul reale smantellamento degli arsenali anche in Paesi che pure hanno firmato e ratificato il Trattato.

 Nell’immagine, un grafico diffuso da Archivio Disarmo

(Red/Ma.Sa.)

 

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