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Il bavaglio alla rete costa caro

Nairobi (dall’inviato) – Nel 2022 dieci chiusure di Internet in 6 Paesi del pianeta hanno già causato una perdita di oltre 621 milioni di dollari. E dal 2019 a oggi, con 257 interruzioni importanti del servizio in 46 Paesi, il costo per l’economia globale è stato di oltre 18 miliardi di dollari. L’aggiornamento del rapporto The Global Cost of Internet Shutdowns (curato da top10vpn.com) parla chiaro: la censura ha un costo non indifferente. Sotto accusa ci sono governi autoritari e dittature e molto spesso situazioni di conflitto. La top list vede infatti in prima fila regimi e conflitti sociali profondi: all’inizio del 2022 il Paese che stava pagato il prezzo più caro era il Kazakhstan, seguito da Nigeria e Myanmar. Nel 2021 la palma andava a Naypyidaw, seguita da Lagos e da New Delhi che il primato ce l’aveva l’anno precedente, quand’era seguita da Bielorussia e Yemen. Sembra un paradosso che la “democrazia più popolosa del pianeta” stia di fianco a una delle dittature più odiose. Ma i numeri non perdonano.

Restrizioni e censura in Africa

I principali Paesi africani per numero di utenti nel 2020 (fonte DW)

L’Africa ha fatto la sua parte in questa stagione di golpe militari, restrizioni della libertà di informazione, censura. La sola economia totale dell’Africa orientale ha perso oltre 277 milioni di dollari a causa della chiusura di Internet imposta dai governi nel 2021. Il Paese più colpito nella regione, non casualmente, è stato l’Etiopia. Addis Abeba, in guerra con la regione del Tigrai, avrebbe perso 164,5 milioni di dollari. Dietro di lei, l’Uganda (oltre 109,7 milioni di dollari), lo Zambia (1,8 milioni di dollari) e il Sud Sudan (quasi 1 milione di dollari). A soffrire di più in Africa sono comunque i Paesi della regione subsahariana. La recente stagione di golpe militari farà inevitabilmente lievitare chiusure e costi.

In Africa è la Nigeria il Paese africano più colpito e con cifre che vanno oltre i milioni: avrebbe registrato una perdita di 1,5 miliardi di dollari, arrivando al secondo posto a livello mondiale dopo il Myanmar che ne ha persi circa 2,8. La Nigeria è tra l’altro stata al centro di uno dei più recenti contenziosi nel continente: aveva imposto un divieto, da poco revocato, a Twitter che durava da sette mesi. Una vicenda che ha fatto discutere.

Il caso Twitter-Nigeria

Twitter ha accettato una serie di condizioni per porre fine al divieto che l’ha penalizzata per ben sette mesi. Ma la storia è stata letta come una sconfitta della società americana e una vittoria del Presidente Muhammadu Buhari (nell’immagine a sinistra)  nei suoi sforzi per regolamentare Internet perché l’azienda che gestisce i cinguettii di poche righe avrebbe in parte chinato la testa. La scommessa era elevata: la Nigeria, che è il Paese più popoloso dell’Africa, può adesso unirsi a piazze come India, Indonesia e Turchia, che regolano rigorosamente le società dei social media. “Questo è qualcosa – ha scritto la Bbc – di cui è probabile che altri Governi africani prenderanno nota, poiché cercano di impedire l’uso dei social media nei gruppi di opposizione”. Nel contempo Twitter serve. Specie durante le campagne elettorali. 

L’accordo è stato raggiunto proprio per permettere a Twitter di “partecipare” alle prossime elezioni generali in una campagna elettorale che è giudicata tra le più costose del pianeta in una nazione dove diventa chiave usare i social network. Poi la società dovrà affrontare un altro problema: la Nigeria intende tassare le società non residenti e dunque Twitter, che ha accettato di pagare, dovrà decidere se aprire una sede importante, una sussidiaria o servirsi di una società di intermediazione.

Emanuele Giordana

In copertina foto di Thomas Jensen

 

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