L’ondata di golpe africani

In diciotto mesi almeno sei Paesi della regione subsaharaiana sono stati scossi da colpi di Stato. L'intervista a Francesco Strazzari, docente di scienza politica della Scuola Sant'Anna di  Pisa

di Alice Pistolesi

La fragilità dei sistemi politici africani si fa sempre più evidente. Negli ultimi diciotto mesi Burkina Faso, Niger, Mali, Sudan, Guinea Conakry e Ciad sono stati interessati da colpi di stato, mentre un sanguinoso tentativo di golpe in Guinea Bissau è stato sventato ieri. Per approfondire le dinamiche di questi stravolgimenti politici che hanno portato (o riportato) i militari al potere abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Strazzari, docente di scienza politica della Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa

C’è un filo rosso che collega la serie di golpe che si sono verificati nell’ultimo anno e mezzo?

C’è sicuramente un effetto-dimostrazione, come già accadde negli anni 60: un colpo di stato che va a segno ne incoraggia altri nei paesi vicini. Ma prima di tutto partiamo con una definizione perché esistono molte tipologie di golpe. Per esempio, ci sono golpe bianchi, ovvero colpi di mano rispetto all’ordine costituzionale da parte di chi già detiene il potere, e ci sono casi più tradizionali che vedono il rovesciamento del potere con le armi.

A fronte di questa diversità osserviamo alcuni tratti comuni. Uno di questi è il protagonismo dei militari, l’altro è sicuramente il prendere tempo. In nessun caso chi ha preso il potere in Africa in questi diciotto mesi ha affermato di volerlo tenere per sempre. Tutte le giunte golpiste hanno istituito un percorso di transizione e hanno presentato road map per la transizione alle organizzazioni regionali. Questo è collegato al tema del consenso, in primis internazionale, e allo scongiurare le sanzioni. Tutti, almeno a parole, hanno proclamato l’intenzione di restare nel solco della legalità. I golpe vengono presentati come necessari per superare le impasse e le difficoltà.

Difficoltà che, comuni in tutta la Regione, sono quindi alla base degli stessi golpe?

Tutta l’area è attraversata da fenomeni e conflitti che rendono gli assetti istituzionali e la popolazione particolarmente vulnerabili. Si pensi alle pressioni determinate dagli effetti del cambiamento climatico, all’espandersi delle insorgenze jihadiste, a vecchi e nuovi conflitti fra comunità locali, attraverso demarcazioni etno-nazionali. Un altro elemento da considerare sono poi le massicce attività anti terrorismo che da vent’anni interessano l’area. Attività che hanno comportato un ingente trasferimento di risorse, di capacità nel settore della sicurezza, dell’esercito, delle forze speciali e in generale l’amento del budget militare in Paesi molto poveri. Osserviamo, per esempio, l’emergere di una classe di ufficiali d’elite 30-40enni, che si ritengono guardiani della patria, insofferenti rispetto alle ‘storture della politica’ e all’inefficacia della ‘guerra al terrore’. La preponderanza degli aiuti militari e del ‘discorso sicuritario’ più in generale, in contesti segnati da estrema povertà e dipendenza, nonché dall’emergere un po’ ovunque di milizie e gruppi paramilitari, ha spesso esacerbato fragili equilibri di società fortemente segmentate e poco integrate, soprattutto fuori dalla dimensione urbana.

Prendere il potere significa controllare direttamente le risorse. Si pensi alle risorse minerarie ed estrattive in genere, tanti in termini di garantire l’attività di grandi gruppi economici, quanto le ‘miniere artigianali’ d’oro. I sistemi politici africani, nonostante tutte le difficoltà, si sono evoluti dagli anni Novanta e le aspettative popolari con loro. Certo esistono un po’ ovunque presidenti che cercano la rielezione oltre i termini consentiti dalla Costituzione, e l’emergenza Covid un po’ ovunque, a partire da Etiopia e Tunisia, è stata usata per rafforzare le tendenze autocratiche e autoritarie. Tuttavia, l’idea di democrazia esiste ed è viva in Africa. Un esempio fra i tanti è la resistenza della popolazione sudanese, che dal 2019 ad oggi si mobilita per il ritorno del potere ai civili, o il movimento Hirak in Algeria, che hanno dimostrato di essere istanze politicamente articolate. C’è da dire poi che i processi di democratizzazione e di riforma sono molto più rischiosi e a rischio di deragliamento di quelli autoritari.

Quali sono quindi le principali insidie per la democrazia nell’area?

Nella Regione del Sahel, così come in tutto il Continente, assistiamo a una rinvigorita competizione geostrategica di attori esterni. Da una parte c’è l’affanno delle ex potenze coloniali e dei loro partner (Stati Uniti inclusi), dall’altra si sono affacciate altre aspiranti potenze non tradizionalmente forti nell’area come la Russia che ha concluso accordi militari con diversi paesi, spesso portando i propri contractor a difesa dei governi e delle giunte militari, dalla Repubblica Centrafricana alla Libia, fino al Mali e forse domani al Burkina Faso. Altro attore che nel tempo ha consolidato e articolato la propria presenza in Africa, fra infrastrutture e investimenti economici, è la Cina. Non possiamo poi tralasciare la Turchia, che sta aprendo ambasciate in tutti gli Stati africani, anch’essa molto attiva nel settore delle infrastrutture. Sia la Cina che la Turchia stanno radicando anche la propria agenda militare. Ma la questione si fa ancora più complessa se pensiamo che dietro la Turchia, in affanno economico sul piano domestico, c’è il Qatar, prezioso alleato nel segno dell’islamismo politico tipico della Fratellanza Musulmana, ma ostile verso gli altri Paesi del Golfo, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, promotori di progetto politico a matrice islamica rivale. L’Africa è in questo senso ancora terreno di scontro di forti dispute ideologiche.

La deriva autoritaria è secondo lei in espansione? Potrebbe coinvolgere altri stati come ad esempio la Nigeria?

Sì, la dinamica è espansiva. La Nigeria ad esempio ha già proclamato varie volte la sua vittoria su Boko Haram e Stato Islamico ma sappiamo che non è credibile, che le insorgenze si propagano, mentre cresce la violenza ad opera di fenomeni di banditismo. I gruppi affiliati ad al-Qaida, ostili allo Stato Islamico, stanno arrivando a colpire anche Benin, Costa d’Avorio e in generale muovono verso i confini del Golfo di Guinea. Il terrorismo e i golpe sono collegati per più ragioni. Una su tutte è la giustificazione che i golpisti danno ai propri colpi di Stato. Inoltre, se i fondi internazionali per sconfiggere il terrorismo arrivano agli Stati, le forze militari hanno tutto l’interesse a prendere il potere e tagliare così gli intermediari. Il tentativo poi diventa, fra i tanti attori che coltivano interessi in Africa, diversificare i propri ‘sponsor’ internazionali per conquistare margini di accettazione del golpe, minimizzando le sanzioni e trovando nuovi crediti politici, militari ed economici. In questo vedo la responsabilità degli attori internazionali che hanno sostenuto Stati in cui la criminalizzazione di ogni forma di opposizione è la regola, e che hanno promosso un modello di sicurezza fondato sull’idea di contenere la mobilità dei civili così da contenere il fenomeno migratorio e terrorista, accomunati come ‘minacce’. La sopravvivenza e la mobilità sociale nel deserto sono vincolate alla circolazione, sparare a chi si muove significa crearsi nemici. Un altro errore è stato poi sottovalutare la corruzione stessa dell’esercito, dimenticandone le radici sociali e le preferenze politiche.

 

*In copertina Photo by Monica Melton on Unsplash

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