Israele-Palestina

Situazione attuale e ultimi sviluppi

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Nella notte di lunedì 3 luglio 2023, l’esercito israeliano ha attaccato il campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata. L’attacco, durato 48 ore, ha comportato l’uso di droni e raid aerei e la partecipazione di oltre duemila soldati israeliani. Almeno 12 Palestinesi, tra cui cinque bambini, e un soldato israeliano sono rimasti uccisi. Circa 140 residenti sono stati feriti, migliaia sono stati costretti a lasciare le loro case e fuggire, e sono state distrutte strade e infrastrutture civili, tra cui scuole e ospedali. L’incursione militare nel campo di Jenin del 3 e 4 luglio è stata la più grande operazione militare israeliana in Cisgiordania degli ultimi vent’anni. Era dalla Seconda Intifada (2000-2005) che non si vedevano attacchi di questa portata al di fuori di Gaza. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha descritto l’operazione militare come la prima di una serie volta a smantellare l’infrastruttura terroristica palestinese. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha condannato l’attacco, affermando che costituisce una grave violazione del diritto internazionale e che potrebbe configurarsi come crimini di guerra. Gli ha fatto eco il rappresentante dell’Unione Europea nei territori palestinesi, Sven Kuehn von Burgsdorff, dichiarando che l’operazione militare israeliana a Jenin viola il diritto internazionale.

In Palestina, il 2022 è iniziato con nuove tensioni tra palestinesi ed esercito israeliano (Tsahal) a causa dei nuovi sgomberi forzati di palestinesi, con sfratti e demolizioni delle abitazioni, a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est già teatro delle proteste all’origine della violenta escalation di scontri nel maggio 2021. Quelle abitazioni, nelle quali i palestinesi vivono fin dagli anni Cinquanta, sono confiscate sulla base delle normative israeliane, quali la legge sulla proprietà degli assenti applicata nei confronti di quanti (migliaia di persone) non si trovavano nelle loro case durante il censimento del 1967. 

In Cisgiordania, anche nel corso del 2022 sono proseguiti senza sosta gli scontri tra palestinesi e Tsahal, con centinaia di feriti e numerose vittime (minori compresi). Il Ramadan (mese di maggio) è stato segnato dal sangue, anche a causa delle proteste contro il via libera di Israele alla costruzione di nuovi insediamenti nella città di Hebron, occupata illegalmente. Costanti, ogni paio di mesi e quasi sempre a ridosso di qualche operazione militare di Tsahal, anche i lanci di razzi palestinesi verso le città israeliane e i pesanti bombardamenti sulla Striscia di Gaza come risposta da parte dell’aviazione di Tel Aviv. È il caso ad esempio di quanto avvenuto con l’operazione Breaking dawn, lanciata ai primi di agosto 2022 su Gaza e durante la quale è stato ucciso Tayasir Jabari, ritenuto il comandante nel settore nord della Jihad Islamica Palestinese (Pji). Oppure della campagna di arresti su larga scala di presunti leader e quadri del movimento della Jihad ed ex prigionieri politici liberati, compiuta in Cisgiordania il mese successivo.

Ancora durante il 2022, in diverse cittadine e sobborghi israeliani (anche della stessa capitale Tel Aviv) sono avvenuti diversi attentati. Palestinesi armati di pistole, fucili, coltelli o scure hanno colpito i cittadini nelle strade, quasi sempre al calar delle tenebre. Decine le vittime, come anche i feriti: 11 morti soltanto nell’ultima settimana di marzo, il numero più alto dal 2006. A giugno 2022, una commissione d’inchiesta voluta dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che “le cause principali” delle ricorrenti tensioni e dell’instabilità in Palestina coincidono con l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e con la discriminazione contro la popolazione. Lo Stato di Israele, oltre a non rispettare le risoluzioni dell’Onu, ora nega l’ingresso agli eurodeputati.

Per cosa si combatte

Due popoli in lotta per la stessa terra dalla fine degli anni Trenta: un piccolo lembo del Vicino Oriente sul quale vivono circa 12milioni di palestinesi e oltre 9milioni di persone nello Stato di Israele. Dopo la fine del colonialismo del Regno Unito in Palestina e la forte emigrazione ebraica avvenuta durante il mandato di governo inglese, nel 1948 l’Onu approva la Risoluzione 181 con il piano di ripartizione di quel territorio: due Stati, uno ebraico (55% del territorio, ospitante anche 400mila palestinesi) e l’altro arabo (quasi integralmente musulmano). Gerusalemme sarebbe stata posta sotto il controllo internazionale. Accettata dagli ebrei, la decisione dell’Onu è rispedita al mittente dai palestinesi. Il 14 maggio 1948, non appena avviene il definitivo ritiro britannico, gli ebrei dichiarano l’indipendenza dello Stato di Israele (riconosciuta da diversi Paesi) e scoppia la guerra. Al fianco dei palestinesi, gli Stati confinanti della Lega Araba. Il conflitto dura un anno. Israele ha la meglio e, in seguito a diversi armistizi (mai accordi di pace), occupa i primi territori non previsti dalla risoluzione Onu, inclusa Gerusalemme Ovest. Lo scenario si ripete nel 1967, quando, dopo la cosiddetta “Guerra dei sei giorni” contro l’Egitto, Israele occupa nuovi territori, costruendo nuovi insediamenti. La lotta dei palestinesi per la propria terra ha visto diverse escalation, come le due Intifade del 1987 e del 2000. Più volte l’Onu ha chiesto a Israele il rispetto dei confini e lo stop alla costruzione di nuovi insediamenti nei territori occupati.

Quadro generale

Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale, la potenze coloniali si spartiscono i suoi territori ridisegnando il Medio Oriente. La Palestina va ai britannici, che la governano dal 1920 al 1948, dicendosi già nel 1917 favorevoli alla nascita di uno Stato ebraico. Con la crescita dell’intolleranza verso gli ebrei, un nuovo movimento politico, il sionismo, invoca il loro ritorno in Palestina, nella “terra promessa” della Bibbia. L’ascesa in Europa dei regimi fascisti intensifica l’emigrazione verso quel territorio e, tra 1936 e 1939, scoppia una grande rivolta, repressa dai britannici. Attraverso il cosiddetto “Libro Bianco”, il Regno Unito limita inoltre il numero degli ebrei che sarebbero potuti entrare in Palestina negli anni seguenti. Lo scenario cambia alla fine della Seconda Guerra Mondiale con la consapevolezza dell’Olocausto: la causa sionista si rafforza e l’emigrazione riprende. Alcune organizzazioni ebraiche lanciano l’operazione Aliyah Bet (Seconda Immigrazione). Dai campi profughi gli ebrei sono portati nei porti del Mediterraneo e fatti imbarcare su navi dirette in Palestina.

Nel 1948, con la Risoluzione 181 l’Onu mette fine al mandato britannico in Palestina stabilendo la nascita di due Stati: uno ebraico e l’altro palestinese. Nascerà soltanto quello di Israele, che attraverso varie guerre e operazioni militari inizia a occupare terre palestinesi, costruendo nuovi insediamenti destinati ai coloni. Vecchi documenti desecretati negli ultimi anni hanno confermato che, già alla vigilia della guerra con l’Egitto del 1967, Tel Aviv aveva messo a punto piani per gestire i territori “sicuramente” conquistati vista la notevole superiorità delle proprie forze armate.

Oggi, quasi mezzo milione di ebrei vive in 132 insediamenti riconosciuti ufficialmente e in oltre 120 avamposti illegali. Per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, l’Unione Europea, Amnesty International e Human Rights Watch, gli insediamenti sono una violazione del diritto internazionale. Allo stesso tempo, la IV Convenzione di Ginevra stabilisce che “la potenza occupante non può mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”.

Nel 1987 la prima Intifada, rivolta palestinese iniziata nella Striscia di Gaza (allora territorio occupato con 10mila coloni israeliani) e poi allargatasi alla Cisgiordania, portò la questione in primo piano. Un passo verso l’accettazione da parte di Israele di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza avviene con gli Accordi di Oslo del 1993, firmati sul prato della Casa Bianca dal premier israeliano Yitzhak Rabin, dal ministro degli Esteri Shimon Peres e, per l’Organizzazione. della liberazione della Palestina (Olp), dal suo storico leader Yasser Arafat. Nasce così l’Autoritò nazionale palestinese (Anp), con Arafat e gli altri quadri che rientrano dall’esilio. Il 4 novembre 1995, al termine di una manifestazione a favore degli Accordi di Oslo, l’allora premier israeliano Rabin viene assassinato da Yigal Amir, un giovane colono ebreo estremista. Il centro-destra israeliano, con i futuri premier Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu in testa, si mobilita contro l’accordo e i “traditori” laburisti. Dopo un contestata visita di Sharon sulla Spianata delle Moschee, luogo santo sia per i musulmani che per gli ebrei, scoppia la seconda Intifada (settembre 2000). Considerato un falco, eletto premier, Sharon si dichiara pronto a riprendere i negoziati e nel 2003 sorprende tutti dichiarando che “l’occupazione dei territori palestinesi non poteva continuare all’infinito”. Con la morte di Arafat un anno dopo, Sharon decide il ritiro unilaterale israeliano da Gaza. La fine dell’occupazione militare e degli insediamenti israeliani nella Striscia consolida l’immagine di Hamas (organizzazione paramilitare palestinese rivale dell’Anp), che nel 2007 vince le elezioni e governa da allora Gaza. La risposta di Israele non si fa attendere, con pesanti restrizioni alla libera circolazione di persone e merci da e verso la Striscia. Nel frattempo, anche in Cisgiordania l’Anp sostenuta dalla comunità internazionale perde di credibilità: considerata da molti corrotta e al servizio di Israele, più volte ha rinviato le elezioni politiche per il timore (giustificato) di una vittoria di Hamas. Nel 2017 il Presidente Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele, sposando così la politica espansionista israeliana.