Sudan

Situazione attuale e ultimi sviluppi

È lotta interna, con gli scontri armati tra l’esercito regolare delle forze armate sudanesi e il gruppo paramilitare RSF e con la ripresa dei conflitti nell’area del Nilo Azzurro e nel Darfur, regione che chiede indipendenza e autonomia. È lotta ai confini, con la paura di un attacco etiope e il braccio di ferro con Addis Abeba per la Gerd, la grande diga voluta dall’Etiopia che controllerà il flusso del Nilo, fiume indispensabile per la sopravvivenza. Il Sudan resta un Paese in guerra permanente, anche nel 2023.

Sul fronte interno, nell’ottobre 2021 un colpo di Stato guidato dal generale Abdel Fatah al Burhan ha di fatto messo fine alla “transizione democratica” iniziata nel 2019, con la deposizione del Presidente Bashir. Durante il colpo di Stato l’esercito è stato affiancato dal gruppo paramilitare denominato Forze di Supporto Rapido (RSF), guidato dal generale Hemedti, poi vice di Al Burhan nella giunta militare al governo del Paese. Le proteste in piazza sono state immediate, gli scontri durissimi, con centinaia di morti. Dall’agosto del 2022 si è parlato di un piano di transizione democratica sostenuto a livello internazionale. Durante i negoziati per la formazione di un governo civile, due questioni hanno causato tensioni tra Al Burhan e Hemedti: le tempistiche dell’integrazione dell’RSF paramilitare nell’esercito regolare e la subordinazione dell’esercito all’autorità civile. Un nuovo accordo di transizione doveva essere firmato nell’aprile 2023, ma è stato poi rinviato a causa dei disaccordi tra i due generali. Il 15 aprile 2023 la lotta di potere tra Al Burhan e Hemedti sulla gerarchia post-transizione è sfociata in scontri armati tra i militari e il gruppo RSF. I combattimenti si concentrano nella capitale, Khartum, dove centinaia di civili sono stati uccisi e migliaia feriti. Nella capitale e in altre regioni sudanesi, come nel Darfur, le forniture di acqua ed elettricità sono state interrotte, numerosi aeroporti e ospedali sono stati colpiti e danneggiati. Centinaia di migliaia di persone stanno lasciando il Sudan per raggiungere altre parti del Paese, l’Egitto, il Ciad, il Sud Sudan e la Repubblica Centrafricana. Secondo le Nazioni Unite, più di 800.000 persone potrebbero essere costrette a fuggire.

A creare problemi ai golpisti sono le troppe guerre in atto. Nel luglio 2022 nello Stato del Nilo Azzurro ci sono stati violenti scontri fra tribù berti e tribù hausa. Il bilancio è stato di 105 morti e 291 feriti. Sempre in estate, nel Darfur sono ripresi gli scontri con quelli che sono stati definiti “banditi del Ciad”. Avevano sconfinato per rubare dromedari e la battaglia che si è scatenata ha contato 18 sudanesi uccisi e 8 ciadiani. Una lotta che dura nel tempo, questa, e che ha portato il Governo sudanese a prendere contromisure importanti. Le stesse prese nel timore di una invasione etiope. Nel luglio 2022, l’esercito di Khartoum ha iniziato un’offensiva nel Distretto di al-Fashaga, alla frontiera tra i due Paesi. È una zona da sempre contesa. L’iniziativa è stata presa dopo che i corpi di sette soldati sudanesi catturati e uccisi dalle truppe etiopi erano stati esibiti pubblicamente in giugno. Il Governo etiope smentisce, ma la tensione cresce. E a salire è anche la spesa militare di Khartoum, che punta all’acquisto di un lotto di caccia J-10Ce da Pechino.

Per cosa si combatte

In Sudan restano teatro di conflitto le Regioni del Darfur, del Nilo Azzurro e delle montagne di Nuba, dove continuano morti e migrazioni.

La guerra in Darfur ha mietuto oltre 400mila vittime e causato la fuga di oltre 2,8milioni di persone. Rimangono vivi anche i conflitti interni tra le fila dell’esercito e con la popolazione, che reclama una democrazia che non arriva.

È conflitto tra l’esercito regolare delle forze armate sudanesi e il gruppo paramilitare Forze di Supporto Rapido (RSF), guidato dal generale Mohamed Hamdan Dangalo, noto anche come Hemedti.

Tra i ranghi del Fsr si contavano le milizie filogovernative dell’ex Presidente deposto Bashir. Verso la fine del Regime dittatoriale, il Fsr ha avuto un ruolo chiave nella deposizione di Bashir, in una svolta che ha visto il gruppo filogovernativo allearsi alle Forze di Rivoluzione e Cambiamento.

Questo ha permesso a Hemedti di consolidare la propria leadership militare del Paese: nonostante il capo del Consiglio militare di transizione sia formalmente Abdel Fatteh Burhan, è chiaro che il Generale è rimasto il leader effettivo, anche grazie ai suoi rapporti personali con gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita, con il supporto finanziario che ne consegue.

L’escalation di violenza è stata causata dai disaccordi tra Al Burhan e Hemedti sul piano di transizione democratica. In particolare, Al Burhan ha chiesto l’integrazione del gruppo RSF nell’esercito entro due anni, mentre Hemedti entro dieci anni. Inoltre, non erano d’accordo su chi avrebbe dovuto guidare l’esercito una volta completata la transizione.

Quadro generale

Le proteste di piazza dopo il golpe militare, gli scontri nel Darfur e nell’area del Nilo Azzurro la guerra sommersa con l’Etiopia sono solo pagine che si aggiungono alla tormentata storia del Sudan postcoloniale. Colpi di Stato e giunte militari si sono susseguite dagli anni ‘50 fino a Omar Hassan al-Bashir che, salito al potere nel 1989, lo ha detenuto per trent’anni ed è stato poi deposto dalla rivoluzione popolare nell’aprile 2019. Fino alla secessione del Sud Sudan, le tensioni e gli scontri armati tra il Nord del Paese, dove prevalgono la cultura araba e la religione islamica, e la regione sub-sahariana a Sud, dove dominano religione cristiana e pratiche animiste e tradizionali, sono rimasti una costante. La fase più sanguinosa del conflitto civile fu combattuta tra il 1983 e il 2003, quando gruppi ribelli guidati dall’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese combattevano per l’indipendenza dal Nord. La fine della guerra intestino sudanese, grazie all’Accordo di Naivasha del 2005, ha portato allo sviluppo delle infrastrutture industriali estrattive e dei pozzi petroliferi, perlopiù in concessione alla Cina.

Il 9 luglio 2011 ha segnato la secessione delle Regioni meridionali del Sudan e la nascita della Repubblica del Sud Sudan. Alla vigilia della divisione, il petrolio rappresentava l’80% dell’export del Paese. Con la scissione sono sorti nuovi problemi: la maggior parte dei pozzi petroliferi sono situati nel Sud, mentre le infrastrutture estrattive e l’industria delle raffinerie è rimasta nel Nord. È stato necessario rinegoziare il sistema di divisione degli utili e gli accordi per l’utilizzo, da parte del Sud Sudan, degli oleodotti che attraversano il Nord e che sono rimasti sotto il controllo di Khartoum. Permangono contese le aree di Abeyi, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro. Dopo la caduta di Bashir, i negoziati di pace si sono tenuti a Juba, in Sud Sudan, e sono durati oltre un anno, portando a un accordo definitivo firmato il 3 ottobre 2020 dal Governo di transizione di Khartoum e dai membri del Fronte rivoluzionario del Sudan, l’opposizione armata sudanese. Il Fronte comprende gruppi provenienti dagli Stati del Darfur, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro (le cosiddette “Due Aree”) e dalle Regioni dell’Est. Di rilievo il fatto che due gruppi di opposizione armata politicamente molto forti, l’Esercito di Liberazione del Sudan e l’Esercito del Popolo Sudanese per la Liberazione, siano rimasti assenti dai negoziati di Juba, motivando la propria astensione con la preoccupazione che alcune reti islamiste stiano continuando a mantenere il controllo di alcune istituzioni statali. Mentre l’accordo di pace ha segnato la fine ufficiale di un conflitto durato decenni, il Darfur continua a essere zona di violenze. I ribelli dell’Esercito di Liberazione del Sudan nella Zona hanno riportato attacchi condotti dalle forze dell’ordine del Regime contro alcune proteste pacifiche organizzate per sostenere la rivoluzione in corso a Khartoum. Nel 2020, conflitti interni all’Esercito di Liberazione del Sudan hanno condotto a ulteriori violenze, morti e migrazioni di civili nel Darfur centrale. Violenze armate sono rimaste attive, anche se meno intense rispetto al passato, anche nello Stato del Nilo Azzurro e nel Sud Kordofan.

Il processo di pacificazione resta ancora ostacolato da grandi sfide, moltiplicate dal golpe dell’ottobre 2021. All’interno del Fronte Rivoluzionario del Sudan permangono interessi divergenti tra fazioni, con pochissimi elementi in comune tra i variegati gruppi armati che lo compongono. E anche la gioventù beja nel Sudan dell’Est e la misseriya araba nel Kordofan occidentale hanno dimostrato il proprio malcontento nei confronti dei negoziati di Juba.

Infine, il costo pratico per attuare le disposizioni dell’accordo di pace è stimato attorno ai 13miliardi di dollari (Usa), da spendersi nel corso di dieci anni. Il Governo sudanese, già a corto di liquidità, dovrà trovare tale somma senza avere, al momento, un significativo supporto all’esterno del Paese. Affinché l’accordo di pace vada a buon fine occorre che la comunità internazionale sia in grado di finanziare la transizione, di dimostrare supporto al Governo e di aiutare a portare al tavolo dei negoziati anche i gruppi armati non firmatari.

Sul fronte orientale, a creare frizioni tra Sudan ed Etiopia è la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam o Grande Diga del Rinascimento Etiope, nota come Gerd. L’Etiopia continua a consolidare le sue relazioni con l’Eritrea, mentre il Sudan si rivolge sempre più all’Egitto: un esempio ne sono state le esercitazioni militari congiunte Guardiani del Nilo svolte tra maggio e giugno 2021.