Cina-Tibet

Cina e India sono i due Paesi più popolosi al Mondo e le due regine dell’Asia. Sono nazioni dinamiche e in rapida crescita, anche se l’economia cinese è di gran lunga più forte di quella indiana. Entrambi i Paesi perseguono politiche di potenza con implicazioni globali, anche se il peso diplomatico e militare della Cina è con ogni evidenza superiore a quello indiano. Infine, entrambi i Paesi hanno armamenti nucleari. Da decenni le relazioni tra le due potenze asiatiche oscillano tra la competizione politico-militare, momenti di conflitto e (più rari) momenti di cooperazione. Il 2020 è stato dominato dal conflitto. Inoltre, i due Paesi vivono da decenni stati di guerra latente al proprio interno o con territori confinanti. Di fatto si tratta di una Macro Area di guerra continua che condiziona l’intero Pianeta.

La tensione tra Delhi e Pechino

Mentre l’attenzione mondiale era puntata sulle minacce scambiate tra Cina da un lato e Giappone e Stati uniti dall’altro nel Mar Cinese Meridionale, la tensione è salita in modo repentino nel settore occidentale dell’Himalaya, in una zona dove la frontiera tra Cina e India e contestata. Finché il 15 giugno 2020 uno scontro tra pattuglie di frontiera ha provocato la morte di venti soldati indiani e quattro cinesi presso il lago Pangong, in una brulla vallata a circa 4.200 metri d’altezza nel Ladakh Nord-orientale. E’ stato uno scontro quasi all’arma bianca, bassissima tecnologia, anche se armamenti pesanti convenzionali e atomici sono sempre sullo sfondo. Ma è stato preceduto e seguito da ripetute scaramucce, mentre entrambe le parti hanno rafforzato la presenza di truppe nella zona contesa. Il 20 settembre, i Ministri degli Esteri di Nuova Delhi e Pechino hanno concordato “cinque principi” per controllare la tensione, tra cui la comune de-escalation militare. Da allora non sono segnalati altri scontri di rilievo. Un anno dopo, però, il ritiro delle truppe non era concluso. Il lago Pangong e i suoi dintorni, disabitati e inospitali, erano stati il teatro di sanguinosi combattimenti tra India e Cina nel 1962, durante la guerra conclusa con una disfatta indiana che ancora oggi resta un trauma per l’elitè di quel Paese. Anche se in seguito c’è stato un riavvicinamento diplomatico, tra Cina e India è sempre rimasto il reciproco sospetto. Le contese territoriali tra le due nazioni

sono un’eredita della guerra del 1962: la frontiera contestata nel Ladakh con il lago Pangong; la disputa territoriale nel settore orientale, in Arunachal Pradesh (Stato indiano di cui la Cina rivendica una parte, che definisce Tibet Meridionale) e nel Sikkim. Anche il riarmo nucleare discende da quella sconfitta: l’ingresso della Cina tra le potenze atomiche (1964) ha convinto i dirigenti indiani a fare altrettanto (il primo test atomico indiano e del 1974), innescando anche l’inseguimento del Pakistan. Nel 1998 India e Pakistan hanno compiuto le esplosioni sotterranee che hanno segnato il loro possesso di armi nucleari.

Tra i motivi di confronto, l’India vede con timore la cooperazione strategica tra Cina e Pakistan e le ambizioni cinesi nel “vicinato”, dal Nepal al Bangladesh al Myanmar. Pechino invece ha visto come una manovra anti-cinese il trattato di cooperazione nucleare tra India e Stati Uniti, che nel 2005 ha di fatto riconosciuto all’India lo status di potenza atomica. Pechino vede come ostili anche le manovre militari tenute nel novembre 2020 dal Quad, il Quadrilateral Security Dialogue, gruppo che include Usa, Australia, Giappone e India. Poi, c’è la competizione nell’Oceano Indiano. Negli ultimi vent’anni la Cina ha costruito grandi porti a Gwadar (Pakistan), Hambantota (Sri Lanka), Chittagong (Bangladesh): Pechino nega che abbiano rilevanza militare, ma l’India si sente accerchiata. Così ha rafforzato la sua presenza navale nelle Andamane e Nicobare e nello Stretto di Malacca, importante via di navigazione commerciale tra l’Oceano Indiano e il Pacifico. Infine, decidendo di non aderire al Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), firmato tra Australia, Brunei, Cambogia, Cina, Indonesia, Giappone, Laos, Malaysia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam nel novembre 2020, Delhi ha voluto smarcarsi da un accordo considerato troppo favorevole a Pechino.

Una guerra indo-cinese non è all’ordine del giorno. I successivi dirigenti dei due Paesi condividono la convinzione che mantenere la Pace sia essenziale per lo sviluppo e la prosperità delle rispettive nazioni e della Regione. Secondo i principi della “deterrenza atomica”, New Delhi e Pechino hanno un trattato di non-primo-uso dell’arma nucleare. Ma la loro e una “Pace fredda”, accompagnata da una crescente retorica nazionalista. Nel frattempo, sui confini contestati continuano i movimenti di truppe e incidenti come quello del giugno 2020 possono sempre portare a escalation non volute stati arrestati “preventivamente”.

Era il preludio a un colpo di mano istituzionale: il 5 agosto 2019, il Primo ministro indiano Narendra Modi ha decretato la revoca degli Articoli 370 e 35A della Costituzione indiana, che riconoscevano allo Stato di Jammu e Kashmir un’ampia autonomia di governo. Il J&K ha inoltre cessato di essere uno “Stato” per diventare “Territorio dell’Unione” amministrato dal Governo centrale, mentre il Ladakh (a maggioranza buddihsta) e divenuto una entità amministrativa a sé. Solo parecchi mesi dopo sono state ripristinate alcune linee telefoniche e autorizzati alcuni spostamenti. La rete Internet e stata ripristinata solo nel febbraio del 2021, dopo ben 550 giorni di blocco totale. Il Territorio resta militarizzato, la libertà di stampa limitata. Abrogare l’Articolo 370 segna la definitiva umiliazione dell’unico Stato indiano a maggioranza musulmana. Non è solo un atto simbolico, perché è decaduta anche la norma che vietava ai nonkashmiri di acquisire proprietà nello Stato. Ora investitori di altri Stati indiani possono comprare terre, ottenere concessioni minerarie o avviare imprese in Kashmir. Per gran parte dei kashmiri e il primo passo per espropriarli e ripopolare la potenzialmente ricca valle con indiani non kashmiri (e hindu). Disillusi, molti giovani kashmiri torneranno a optare per la militanza armata. Intanto, gli scontri sulla Linea di controllo sono in aumento e un dialogo di Pace tra India e Pakistan sembra remoto – specie dopo che nel 2019 i due Paesi sono tornati sull’orlo del conflitto, quando il gruppo terroristico Jaish-e-Mohammed ha rivendicato un attentato contro un convoglio militare indiano che ha ucciso oltre quaranta soldati nel febbraio di quell’anno. Alcuni giorni dopo, caccia indiani Mirage 2000 hanno sganciato bombe su un “campo terroristico” nel territorio del Kashmir controllato dal Pakistan. Islamabad ha catturato un aviatore indiano per poi liberarlo, disinnescando l’ennesima pericolosa tensione tra i due Paesi.

Il surriscaldamento del Pacifico

Il tono è stato tutt’altro che diplomatico. “Levatevi dalle p…e”, ha scritto su Twitter nel maggio 2021 il ministro degli Esteri filippino Teodoro Locsin rivolto ai cinesi e alla presenza di pescherecci e navi della Repubblica Popolare nella zona economica esclusiva di Manila. “GET THE F.CK OUT”, ha intimato a Pechino (maiuscolo incluso), accusando i cinesi di mettere a rischio l’amicizia tra i due Paesi. Il linguaggio felpato insomma a volte non serve, secondo il titolare della politica estera filippina, non nuovo a uscite di questo genere. E il messaggio in questa occasione doveva arrivare diretto, dopo l’accusa rivolta alla guardia costiera cinese per le minacce contro le navi filippine nelle acque attorno alla Secca di Scarborough (chiamata anche Bajo de Masinloc in lingua spagnola o Secca di Panatag o Huangyan Island), due scogli di un atollo tra il banco di Macclesfield e Luzon nel Mar Cinese Meridionale. Ma lo sfogo ha origini più profonde. Almeno da fine marzo, circa 200 imbarcazioni cinesi stazionano nei pressi di Whitsun Reef, un banco corallifero parte delle isole Spratly che i filippini considerano sotto la propria sovranità. Si tratta di navi della cosiddetta milizia marittima. Come spiega al magazine indiano Outlook Carl Schuster, della Hawaii Pacific University, si tratta formalmente di pescatori e operai che presidiano le coste cinese. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la loro attività si è via via espansa nel Mar Cinese Orientale e Meridionale. In pratica, si tratta di forze paramilitari la cui presenza aiuta Pechino a rivendicare quasi per intero la porzione di acque contese con Malaysia, Vietnam, Taiwan, Brunei e Indonesia. Per la Cina, le rivendicazioni marittime sono una questione sulla quale e di fatto impossibile discutere con gli Stati vicini. E quando ciò avviene, l’approccio e bilaterale e non multilaterale, in modo da far pesare la propria forza economica. Lo spiega bene su Sinosfere Alessandro Uras, dottore di ricerca in Storia e istituzioni dell’Asia e dell’Africa e cultore della materia all’Università di Cagliari: i tratti di mare contesi sono considerati “sacre acque territoriali” appartenenti alla Cina da tempo immemore. La rivendicazione cinese e basata sul retaggio storico più che sulle basi giuridiche. Ci sono poi ragioni geopolitiche ed economiche. L’Area è uno dei mari più ricchi al Mondo in termini di flora e fauna, oltre a essere di vitale importanza per gli Stati rivieraschi per la presenza di importanti risorse ittiche e naturali, gas, petrolio, gomma.

Nel corso degli anni, i cinesi hanno quindi militarizzato atolli e banchi sabbiosi, costruito isole artificiali, incluso il Mar Cinese Meridionale all’interno dei propri confini nazionali creando ad esempio il distretto di Nansha, che comprende le isole Paracel, o quello di Xisha, nel quale ricadono le Spratly e il Macclesfield Bank. Navi da guerra e della guardia costiera operano invece con regolarità negli specchi d’acqua contesi, assieme appunto alle milizie marittime, entità ormai utilizzate anche da altri. Strutture simili sono state adottate ad esempio dal Vietnam. Secondo il National Institute for South China Sea Studies, organizzazione con sede nella provincia cinese di Hainan, negli ultimi dodici anni le forze paramilitari vietnamite hanno raddoppiato il personale, salendo a circa 70mila unità.

Le tensioni nell’Area si inseriscono inoltre nel delicato equilibrio tra i Governi. Proprio le Filippine, sotto la presidenza di Rodrigo Duterte, si sono avvicinate all’ingombrante vicino cinese, che ha fornito anche vaccini nel mezzo della pandemia di Covid-19, e si sono barcamenate in una difficile relazione con gli Stati Uniti, gia potenza coloniale nell’Arcipelago e convitato di pietra nell’Area. Manila vede in Pechino un indispensabile partner commerciale. Non di meno il Capo dello Stato ha dovuto assumere una posizione ferma sulla questione marittima, ribadendo che la sovranità sulle acque contestate “non e negoziabile”, anche se ha intimato ai suoi Ministri di non lasciarsi andare a commenti sui rapporti con la Cina. In questo contesto, l’azione cinese non ha mancato di alzare la posta. Lo dimostra la decisione malaysiana, ai primi di giugno, di convocare l’ambasciatore cinese dopo l’intrusione di sedici aerei militari nei cieli del Regno, distanti circa 60 miglia nautiche dallo Stato di Sarawak. Un episodio considerato dal Governo di Kuala Lumpur una “seria violazione della sovranità nazionale e della sicurezza in volo”.

Lo Stretto di Taiwan

L’attenzione nell’Area è tuttavia rivolta in particolare allo Stretto di Taiwan. L’isola è stata descritta come il posto più pericolo sulla faccia della Terra, almeno in questo momento. E almeno dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando la Repubblica Popolare rispose con esercitazioni missilistiche alla visita negli Stati Uniti dell’allora presidente Lee Teng-hui, che i rapporti tra Pechino e Taipei non sono cosi tesi. Nell’ultimo anno sono aumentate le incursioni di aerei spia e jet militari nella cosiddetta “zona di identificazione aerea” di Taiwan, dove dal 2016 e al governo il Partito democratico progressista di Tsai Ing-wen che ha posizioni di maggiore autonomia rispetto alla Cina, con la quale dal 2008 la precedente amministrazione di nazionalisti del Kuomintang aveva intrapreso un processo di riavvicinamento, soprattutto economico. Taiwan è di fatto indipendente dal 1949, quando i comunisti presero il potere a Pechino. Allora i nazionalisti formarono un proprio Governo sull’isola, che ora guarda con apprensione alla normalizzazione forzata avvenuta a Hong Kong negli ultimi due anni. La riunificazione con la Cina continentale e uno dei capisaldi del cosiddetto “sogno cinese” delineato nel 2013 dal presidente Xi Jinping, mutando l’idea dal sogno americano. In soldoni, è la convinzione che la Cina non debba più subire l’onta e l’umiliazione di fine Ottocento e della prima meta del Novecento per mano di potenze occidentali e del Giappone, divisa tra signori della guerra e coinvolta in un conflitto civile. Xi parla quindi di rinascita della nazione. E in questo contesto, il ritorno di Taiwan non può più attendere “di generazione in generazione”. Se fino a qualche tempo fa la prospettiva di adottare anche a Taiwan dopo Hong Kong il principio “un Paese, due sistemi” poteva essere indicata come una soluzione per ricongiungere Taipei e la Cina comunista, la stretta imposta dal Governo di Pechino sull’hub finanziario ha reso impraticabile tale strada agli occhi dei taiwanesi.

Rimane il dubbio se gli Stati Uniti siano pronti a imbarcarsi in un eventuale conflitto aperto con la Cina nel caso la situazione dovesse precipitare e la dirigenza cinese dovesse tentare un’azione di forza per riannettere l’isola. A marzo, l’Amministrazione di Joe Biden ha approvato la vendita a Taiwan di componenti tecnologiche fondamentali per la costruzione dei suoi nuovi sottomarini. In precedenza, l’ex presidente Donald Trump avevo autorizzato 1,8miliardi di dollari in sensori, missili cruise e pezzi di artiglieria destinati all’isola. E navi da guerra americane incrociano continuamente quei mari. Recenti indiscrezioni di stampa riferiscono tuttavia dell’intenzione del Presidente Usa di evitare uno scontro diretto tra le due superpotenze. Una guerra nel breve termine e in ogni caso giudicata improbabile. Più probabile quindi che Washington, secondo quanto emerge, prosegua con la strategia delle forniture per rafforzare la difesa taiwanese e possa optare per il ricorso a sanzioni nel caso dell’aggravarsi della situazione sul campo. Di certo, nell’Isola i cittadini sono sempre più scettici rispetto a Pechino, tanto che il 67% della popolazione, secondo un sondaggio della National Chengci University, si identifica esclusivamente come taiwanese, ricorda l’Ispi. Decenni di indipendenza di fatto hanno marcato il solco, in particolare tra le giovani generazioni. Pesa inoltre, come già detto, la repressione nei confronti del movimento democratico a Hong Kong e il restringimento degli spazi di autonomia del Territorio.

Il nodo Hong Kong

Il 27 marzo 2021, il via libera del Consiglio legislativo (il miniparlamentino di Hong Kong) alla controversa riforma elettorale voluta da Pechino è soltanto l’ultimo intervento in ordine di tempo per allineare la Regione autonoma speciale alla Cina continentale. Oltre a dare al Governo centrale diritto di veto sui candidati, il nuovo sistema restringe il numero di consiglieri eletti, nonostante nel complesso i legislatori salgano da 70 a 90. Di questi, 40 saranno nominati da una commissione governativa, altri 30 selezionati dai cosiddetti “collegi funzionali”, ossia la rappresentanza del mondo imprenditoriale. Si allontana quindi l’impegno a garantire il suffragio universale. Dall’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale alla vigilia del primo luglio 2020, in risposta a un anno di manifestazioni la cui scintilla fu la proposta di nuove norme per l’estradizione, l’ex colonia britannica si e avvitata. Pechino ha usato una formulazione molto ampia di sicurezza nazionale, sottolinea Amnesty International. Il provvedimento è stato quindi usato per interferire sia sull’informazione sia sull’istruzione. Slogan come “Liberare Hong Kong” sono stati dichiarati sovversivi, l’inno Glory to Hong Kong messo al bando dalle scuole. Addirittura, il Provveditorato agli studi ha stilato linee guida per stabilire che già dall’età dei sei anni i bambini debbano imparare cosa e considerato sovversione e cosa considerato collusione con le forze straniere. “Il diritto alla libertà di riunione pacifica e stato ulteriormente ridotto dall’applicazione apparentemente arbitraria delle norme di distanziamento fisico, nel contesto della pandemia da Covid-19”, nota ancora Amnesty. Il timore tra la popolazione è che il Territorio diventi semplicemente una città cinese come le altre, mentre prominenti esponenti dell’opposizione sono silenziati e incarcerati.

Simbolica la condanna per l’imprenditore Jimmy Lai, editore del Apple Daily, uno dei più tenaci giornali dell’opposizione, accusato di aver organizzato un grande corteo il 18 agosto del 2019. O ancora ci sono gli arresti di politici e attivisti per aver organizzato primarie informali dell’opposizione per selezionare i suoi candidati alle elezioni del Consiglio legislativo. L’hub finanziario continua comunque a ricoprire un ruolo chiave nell’attrazione degli investimenti esteri. L’ex colonia britannica, intanto, è diventata l’approdo prescelto delle Big Tech del Dragone per le quotazioni secondarie. A fine marzo, Baidu, il dominatore cinese dei motori di ricerca già quotato sul Nasdaq, ha raccolto quasi 3,1miliardi di dollari attraverso la quotazione secondaria. Da quando la Piazza asiatica ha allentato le proprie regole nel 2018, secondo le stime della società di ricerca Dealogic, una decina di quotate cinesi negli Usa, tra cui Alibaba, NetEase, YumChina, Jd.com, hanno raccolto circa 30miliardi di dollari a Hong Kong. L’elenco e destinato ad allungarsi da quando la Sec, l’autorità di vigilanza sui mercati statunitense, ha puntato un faro sulle quotate del Dragone, con la minaccia di cancellarle dal listino se non si adeguano agli standard di auditing Usa. In questo quadro, Pechino sta comunque tentando di inglobare Hong Kong all’interno della Great Bay Area, includendo cosi anche Macao e la ricca provincia del Guangdong, dove megalopoli come Shenzhen, attraverso leggi dedicate per aumentarne la competitività, possono privare il centro finanziario di caratteristiche che lo rendono appetibile per gli investitori, anche se nei piani del Governo centrale “il porto profumato” dovrebbe diventare il centro principe per le società di risparmio gestito. La repressione a Hong Kong sfiora anche Taiwan, nel momento in cui i funzionari di Taipei sono stati messi davanti alla scelta tra non avere i propri visti rinnovati oppure dichiarare di sostenere le rivendicazioni di Pechino sull’Isola in base alla politica dell’unica Cina.

La questione dello Xinjiang

Alle proteste internazionali, i dirigenti cinesi ribattono denunciando interferenze nelle questioni interne alla Repubblica Popolare. Il livello retorico si è alzato. La dimostrazione sono le sanzioni imposte dalla Repubblica Popolare contro gli eurodeputati Reinhard Butikofer, Michael Gahler, Raphael Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk e Miriam Lexmann, nonché contro altri studiosi ed entità europee, come ritorsione contro le misure restrittive decise dal Consiglio Affari Esteri dell’Ue contro funzionari della Regione autonoma dello Xinjiang ritenuti responsabili per le detenzioni arbitrarie su ampia scala e gli abusi subiti dalla minoranza uigura.

Dal 2017, si stima che almeno un milione tra uiguri (principalmente), kazaki e uzbechi sono stati detenuti in modo arbitrario. Alcune stime fanno salire il conto a 1,5milioni. Per la dirigenza cinese, si tratta di programmi di reinserimento professionale, un modo di contrasto al radicalismo e ai cosiddetti “tre mali” additati dalla Cina come i principali rischi per il Paese: separatismo, estremismo e terrorismo. La Regione dello Xinjiang, situata all’estremo occidente della Repubblica Popolare è strategica perché porta terrestre della Belt and Road Initiative (il grande progetto infrastrutturale e commerciale di connessione con l’Europa), sta inoltre diventando un banco di prova per testare tecnologie di sorveglianza e identificazione. Sul Paese piove l’accusa di “genocidio” demografico e culturale. Definizione sposata da alcuni Governi e Parlamenti, come quello canadese, e criticata da altri perché in sede internazionale il perpetrarsi del genocidio sarebbe più difficile da dimostrare rispetto alla sistematica violazione dei diritti umani.

Da parte cinese, la giustificazione è la necessita di sostenere il Territorio nella via verso il progresso. Sono quindi aumentati i resoconti sui progressi economici. Secondo i dati ufficiali, il reddito medio annuo nelle zone urbane e cresciuto a un tasso medio anno del 6% negli ultimi 5 anni e ha raggiunto 5.400 dollari l’anno scorso, mentre nelle campagne e di un terzo. Sarebbero invece almeno 3milioni gli agricoltori usciti dalla povertà negli ultimi anni. Questa la posizione di Pechino, che bolla alla stregua di calunnie le accuse di internamento della popolazione e di sfruttamento dei lavori forzati.

Per contrastare tale narrazione, la macchina della comunicazione cinese si e fatta più assertiva. E la cosiddetta diplomazia muscolare o dei Wolf Warrior, dal titolo di una serie di film sulla falsariga di Rambo ma con protagonista un ex militare cinese. Lo schemaèe ribattere punto su punto, propagandando l’immagine di una Cina attore responsabile sullo scacchiere internazionale che allo stesso tempo rivendica l’efficienza del proprio modello, paragonandolo alle difficoltà riscontrare negli ultimi anni dalle liberaldemocrazie sia sul piano politico (con l’emergere delle forze sovraniste) sia economico sia di gestione della pandemia. Il caso Xinjiang, comunque, perpetua la difficoltà cinese nel gestire le frontiere abitate da minoranze etniche. Succede anche nella Mongolia Interna, dove alla fine del 2020 si sono verificate tensioni e proteste contro l’imposizione di un uso più diffuso del putonghua (il mandarino lingua ufficiale) a scapito del mongolo, nel tentativo di rafforzare l’identità nazionale.

Dossier Tibet

Tentativi simili sono ancora in atto in Tibet. Trascorsi settant’anni dalla firma del Trattato dei 17 punti che sancì la “pacifica liberazione” della Regione, dove le truppe cinesi erano entrate l’anno prima, Pechino non ha alcuna intenzione di allentare la presa. Al contrario, l’intenzione e di sostenere e rafforzare la presenza del Partito comunista. Soltanto cosi, è la convinzione della dirigenza cinese, il Tibet potrà “continuare il suo percorso di sviluppo”. I fatti “dimostrano che l’indipendenza tibetana altro non e se non il prodotto dell’aggressione imperialista contro la Cina”, ha ribadito il segretario del Pcc nella Regione, Wu Yingjie. E ha aggiunto che “cacciare gli imperialisti dal Tibet era precondizione per il popolo cinese di preservare l’unita nazionale”. L’attenzione internazionale verso la causa tibetana sta nuovamente prendendo corpo. A dicembre del 2020, il Congresso statunitense ha approvato una legge di sostegno al diritto dei tibetani di scegliere in modo indipendente il futuro Dalai Lama, guida spirituale del buddhismo tibetano. Per la Repubblica Popolare, è l’ennesima intrusione negli affari interni. Nell’ultimo Libro Bianco sul Tibet, il Governo comunista ha voluto ribadire che l’area è da secoli parte della Cina e come tale inalienabile sin dall’antichità, facendo risalire la dominazione al diciassettesimo secolo.

Nello stile della Repubblica Popolare, il documento snocciola quelli che rivendica come i risultati ottenuti. Il reddito medio pro-capite per residenti rurali e arrivato a 14.598 yuan (pari a circa 2.271 dollari) nel 2020 ed e in aumento del 12,7% su base annua, mentre quello dei residenti urbani ha raggiunto i 41.156 yuan (+10%). “Il buddhismo tibetano e stato da sempre parte della cultura cinese”, e il concetto sottolineato da Wu. Una sinizzazione dell’aspetto religioso, sfruttandolo per esercitare il controllo. Anche in questo caso l’attenzione di Pechino e sui numeri. Ancora una volta e il Libro Bianco a indicare su cosa i cinesi vogliono puntare l’attenzione. Ad esempio, si fa vanto dei novantadue Buddha viventi identificati e approvati attraverso rituali religiosi tradizionali e convenzioni storiche. Sullo sfondo, c’è la designazione del prossimo Dalai Lama, il quindicesimo. Tenzin Gyatso, in esilio in India dal 1959, ha 86 anni: benché le sue condizioni di salute siano ancora giudicate buone, il dibattito su cosa accadrà dopo la sua morte e aperto ed è diventato una questione di geopolitica che vede su fronti opposti la Cina da una parte e Stati Uniti e India dall’altra. Secondo quanto riportato dall’agenzia Bloomberg, funzionari del Governo di New Delhi avrebbero già iniziato a intavolare colloqui per capire come gli indiani potranno influenzare la scelta, anche in forza del fatto che la Federazione ospita a Dharamsala il Governo tibetano in esilio. Si parla di assemblee tra monaci di diverse sette, con l’intento di garantire legittimità alla successione e coprire il vuoto di potere in attesa dell’identificazione del bambino considerato la reincarnazione del Dalai Lama.

Anche gli Usa sono entrati nella partita. “Riteniamo che il Governo cinese non debba avere voce in capitolo nella successione”, ribadiva lo scorso marzo il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Ned Price. Da questo punto di vista, l’Amministrazione di Joe Biden non sembra aver optato per un atteggiamento piu soft rispetto al solco tracciato alla fine del mandato da Donald Trump. Citato sempre da Bloomberg, Samdhong Rinpoche, componente dell’ufficio del Dalai Lama, ha ricordato che se il Tibet continuerà a restare occupato, allora “Sua Santita potrebbe reincarnarsi altrove, probabilmente in India”. A questo punto i cinesi, come già fatto negli anni Ottanta sostituendo il Panchen Lama prescelto con un bambino di loro scelta, potrebbero nominare di loro pugno un successore. Pechino si appiglia di nuovo a quanto riportato nel Libro Bianco, nel quale viene ricordato l’editto dell’imperatore Qianlong, di epoca Qing, per rendere il sorteggio della cosiddetta “urna d’oro” l’unico metodo corretto per selezionare tra una rosa di candidati approvati dalle autorità i successori sia del Dalai Lama sia del Panchen Lama. La replica a questa pretesa è che tale sistema è stato utilizzato soltanto per due dei quattordici Dalai Lama finora indicati. La questione non è di facile conclusione. Nel mentre, Pechino prova a estendere i confini di quello che considera il Tibet storico sotto la sua sovranità. A darne conto e Robert Barnett, esperto di Tibet e di buddhismo, su Foreign Policy: Pechino sta incoraggiando i pastori tibetani a sconfinare nel vicino e piccolo Regno del Bhutan e costruire nuovi villaggi, cosi da fare da apripista all’arrivo di operai e soldati. La strategia e quella seguita nel Mar della Cina Meridionale, dove la Cina ha occupato una serie di minuscole isole e ne ha create di artificiali come avamposti. In questo caso, l’occupazione delle area di Beyul, spiega ancora Barnett, sarebbe uno stratagemma per ottenere in cambio territori nel Bhutan occidentale.