Filippine

Situazione attuale e ultimi sviluppi

La vittoria elettorale di Ferdinando “Bongbong” Marcos alle elezioni del maggio 2022 non sembra per il momento modificare il quadro politico lasciato in eredità del Presidente Rodrigo Duterte, benché Marcos, nelle prime dichiarazioni, si sia mostrato attento a dare un carattere più umano al suo mandato, specie in relazione alla guerra ai narcotrafficanti. Sul fronte dei conflitti interni resta però alta la tensione verso chi critica le scelte del Paese, si tratti di guerra al terrorismo, negoziato coi ribelli o (soprattutto) diseguaglianze sociali. Della tensione fanno le spese giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati, attivisti, religiosi. Nel rapporto con i ribelli comunisti, il Governo Duterte ha lasciato la sua carica dopo aver ribaltato del tutto la politica orientata ai criteri di “pace e sviluppo” perseguita fino al 2018. Da allora, l’Esecutivo ha mutato registro lanciando una feroce campagna repressiva e dando all’esercito l’ordine di “sterminare tutti i ribelli”. Annullati i negoziati, la popolazione delle Province nella parte centrale dell’isola di Mindanao e nella Regione di Visayas orientale ha visto sfumare il pregresso piano di integrazione e cooperazione socioeconomica, nonché ogni forma di amnistia per i guerriglieri. La militarizzazione del territorio ha generato diffusi abusi dei diritti umani ed esecuzioni extragiudiziali compiute dall’esercito e largamente impunite. Sono finiti nel mirino rappresentanti delle comunità locali, leader indigeni e membri di ong sospettati di sostenere la guerriglia. Culmine di tali operazioni, il 7 marzo 2021 nove attivisti appartenenti a diverse organizzazioni della società civile sono stati uccisi in esecuzioni mirate compiute dalle forze di sicurezza.

Anche nelle Filippine del Sud, nella Regione autonoma di Bangsamoro, si sono registrati scontri tra insorti di matrice jihadista e le forze di polizia. Mentre la legge marziale proclamata all’indomani dell’assedio jihadista alla città di Marawi è stata revocata alla fine del 2019, i combattenti Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (Biff) e altri gruppi ribelli legati al sedidente Stato Islamico hanno compiuto raid e imboscate a pattuglie militari. Tali gruppi rigettano l’approvazione della “Bangsamoro Basic Law”, la legge approvata nel 2019 e confermata da un referendum popolare che ha istituito la nuova Regione autonoma musulmana. Ora si tratta di vedere cosa farà il Presidente Marcos. Resta aperto anche il conflitto sul versante marittimo: persistono tensioni tra Manila e Pechino sulla presenza di forze navali cinesi nel Mar Cinese Meridionale per le isole contese Spratly e Paracels.

Per cosa si combatte

I fronti di conflitto aperti da decenni nelle Filippine sono sostanzialmente due: il primo vede l’esercito governativo impegnato a contrastare i gruppi terroristi e jihadisti, il secondo è lo scontro con la guerriglia di ispirazione maoista. Sul primo versante, a partire dagli anni ’70 del ‘900 si è attivato sull’isola di Mindanao (Filippine meridionali) il Fronte Nazionale di Liberazione Moro (Mnlf), ben presto affiancato dal Fronte Islamico di Liberazione Moro (Milf), entrambi combattenti per l’autonomia (o a volte per la secessione). In un conflitto che in 50 anni ha fatto oltre 150mila morti, la creazione della Regione Autonoma di Mindanao Musulmana ha sottratto terreno fertile a gruppi fondamentalisti islamici come Abu Sayyaf (“Il brando di Dio”), che hanno cercato un’alleanza trasversale con il gruppo Stato Islamico. Sul versante della guerriglia comunista, a partire dagli anni ’90 il Nuovo Esercito Popolare (Npa), collegato al Partito Comunista delle Filippine, ha promosso una ribellione armata nell’area centrale e meridionale dell’Arcipelago. Il conflitto tra le forze governative e i ribelli comunisti, che nei decenni ha fatto oltre 40mila vittime, si è riacceso nel novembre 2018, quando il Presidente Duterte ha ufficialmente cancellato i negoziati di pace con il Partito Comunista e bollato il Nuovo Esercito Popolare come “gruppo terroristico”. Da allora è iniziata una lotta senza quartiere con alti e bassi, fragili spiragli negoziali e dura repressione che ha preso di mira anche civili, attivisti, gruppi indigeni.

Quadro generale

Nel maggio 2020 le Filippine hanno eletto un nuovo Presidente, Ferdinando Marcos jr, figlio dell’ex dittatore Ferdinando Marcos. Ha ottenuto una vittoria schiacciante. “Bongbong”, come viene soprannominato, ha arruolato come Vice-Presidente Sara Duterte, figlia del Presidente uscente, unendo così due dinastie populiste orientate a destra e garantendo una continuità all’era Duterte. L’ex capo di Stato Rodrigo Duterte, eletto a maggio 2016, ha impresso una svolta in senso autoritario alla vita politica, sociale e culturale del Paese. Costantemente ai massimi livelli di gradimento popolare (con una media del 70% su base nazionale), Duterte ha poi vinto le elezioni di medio termine nel maggio 2019 e ha governato con una maggioranza schiacciante in Parlamento (oltre il 70% dei seggi). Nel triennio di conclusione del mandato, il Presidente ha confermato e accentuato le sue politiche di stampo populista imperniate su una campagna che gli è valsa il solido consenso della maggior parte della popolazione: la “guerra contro la droga” da lui avviata e condotta dalla polizia con l’ausilio di veri e propri “squadroni della morte” che hanno promosso omicidi in massa di spacciatori di droga e tossicodipendenti. Secondo Amnesty International e Human Rights Watch, fin dal 2016 la polizia filippina ha ucciso, o ha pagato per far uccidere, migliaia di presunti autori di crimini di droga in un’ondata di esecuzioni extragiudiziali che ha fatto decine di migliaia di vittime, generando indignazione a livello internazionale. Nonostante le proteste  delle organizzazioni della società civile filippina e l’allarme lanciato sull’urgenza di “difendere la democrazia e i diritti umani, contro le migliaia di assassini extragiudiziali e l’impunità”, Duterte ha confermato trionfalmente “la guerra alla droga” anche nel secondo triennio del suo mandato presidenziale, scaduto a maggio 2022. Senza curarsi della denuncia accolta dalla Corte Penale Internazionale nel 2021 né della costernazione espressa in sede Onu, Duterte ha continuato a mettere al centro della politica le questioni di sicurezza e legalità anche nell’emergenza legata alla pandemia. Anzi, nel suo approccio da “uomo forte” che catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica, ha usato le medesime espressioni e paradigmi per descrivere la “guerra al Covid”, la “guerra alla droga”, la “guerra alla ribellione comunista” e quella al jihadismo nel Sud del Paese. Dopo la vittoria di Marcos nel 2022, Duterte ha esortato il suo successore a continuare la guerra alla droga “a modo suo” per proteggere la società. Marcos ha dichiarato la sua intenzione di continuare la campagna antidroga ma sostenendo di volersi concentrare maggiormente sulla prevenzione e la riabilitazione.

I diversi e variegati fronti di conflitto aperti sul versante interno sono apparsi strettamente funzionali a mantenere elevata nell’opinione pubblica l’impressione della necessità di un Presidente-sceriffo (come Duterte si è presentato fin dal primo giorno), nonché la presenza pervasiva delle forze militari e della polizia, che ha condotto a una progressiva militarizzazione delle città e delle aree rurali. Le forze dell’ordine dispiegate sul territorio in maniera capillare sono state allora presentate e percepite come necessarie per combattere le varie “guerre” in atto: quella per garantire l’osservanza delle misure anti-Covid (in un Paese pesantemente colpito dalla pandemia e cui sono stati imposti vari lockdown) e quella per eliminare la criminalità e lo spaccio di droga dalla società; quella per contrastare la ribellione comunista che affligge soprattutto la parte centrale dell’Arcipelago e quella per stroncare il risveglio del jihadismo nelle Filippine del Sud, rinnovato dalla presenza dello Stato Islamico.

Una delle “guerre” interne che invece il Governo di Duterte non ha affrontato con la necessaria decisione è quella alla povertà e all’indigenza, aggravate dall’emergenza sanitaria che ha avuto due effetti deleteri: colpire il vasto settore dei “lavoro informale”, migliaia di salariati a giornata e di piccoli lavoratori dei trasporti, commercianti e artigiani, che popolano Manila e le città più estese; diminuire improvvisamente il cospicuo flusso delle rimesse dall’estero, stampella fondamentale dell’economia filippina. Si stima, infatti, che i dieci milioni di filippini che vivono e lavorano all’estero contribuiscano, con il denaro inviato in patria, a comporre il 10% del Prodotto Interno Lordo.