Myanmar

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Nel mese di ottobre del 2023 un’offensiva militare della resistenza su larga scala ha cambiato il quadro poltico militare in Myanmar e nei rapporti tra Naypyidaw  e Pechino. L’ Operazione 1027 è stata iniziata a fine ottobre nello Stato Shan (Nord Myanmar) dalla cosiddetta Brotherhood Alliance (Ba), l’alleanza tra Kokang Myanmar Democratic Alliance Army (Mndaa), Ta’ang National Liberation Army (Tnla) e soprattutto Arakan Army (Aa), la vera protagonista dell’offensiva. Nel giro di sette settimane la Ba aveva già raggiunto risultati significativi: militari, politici, psicologici. L’aspetto militare si può riassumere nel controllo di importanti città sulla frontiera con la Cina, come Chinswehaw; nel blocco delle strade che da Mandalay conducono nella Rpc, con conseguente stop dell’import-export da e per la Cina, con la conseguente ’impossibilità per il Tatmadaw di rifornire i suoi soldati nel Nord Shan; nella conquista, secondo fonti della resistenza , di circa 300 postazioni militari della giunta, col sequestro di mitragliatrici pesanti (Hmg-heavy machine guns) in grado di colpire bombardieri in volo; nell’utilizzo massiccio di droni e nella messa in stato di assedio di una ventina di centri abitati controllati da Tatmadaw.

Uno degli episodi più sanguinosi dell’anno 2023 è accaduto l’11 aprile quando l’ennesimo raid aereo nel Sagaing ha ucciso 168 persone, di cui 159 erano civili, che partecipavano all’apertura di un ufficio amministrativo gestito dall’opposizione alla giunta nella cittadina di Pazigyi, township di Kanbalu. Sono state usate bombe termobariche a doppia esplosione che hanno effetti potentissimi.

Il 1 febbraio 2023 il generale Min Aung Hlaing, presidente del Consiglio dell’amministrazione statale (Sac) e Comandante supremo delle forze armate birmane, ha deciso di prolungare di altri sei mesi lo stato di emergenza a due anni dal rovesciamento del governo della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, ora in prigione con una condanna a più di trent’anni. Il prolungamento dell’emergenza confligge con la stessa Costituzione voluta e scritta proprio dai militari nel 2008 che, Carta alla mano, prevede elezioni dopo massimo 24 mesi da un’operazione di “pulizia istituzionale”. In secondo luogo, proprio l’indiretta ammissione di non poter tenere le elezioni dimostra quanto poco sia effettivo il controllo della giunta sul Paese.  La giunta controlla le maggiori città ma ha serie difficoltà nelle campagne. Nel settembre 2022 il governo ombra civile (National Unity Government-Nug) ha dichiarato che le sue forze di difesa popolare (Pdf) e le organizzazioni rivoluzionarie etniche alleate (Ethnic Armed Organization-Eao o Ethnic Revolutionary Organization-EaO come il Nug preferisce chiamarle) hanno il controllo effettivo di oltre la metà del Paese. La giunta stessa ha ammesso di avere un controllo stabile su 72 delle 330 township del Paese, un quarto super giù del territorio birmano. Secondo fonti della Lnd, avrebbe perso anche 90 basi militari.

Contrariamente a quanto si pensi, la guerra birmana non è un conflitto a bassa intensità.  Secondo il centro di ricerca Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project), nel solo periodo gennaio giugno 2022 la guerra ha messo a bilancio oltre 11mila vittime e oltre 6mila episodi di violenza o protesta. Dall’inizio del golpe, il bilancio delle vittime, sempre secondo Acled, sarebbe di oltre 30mila morti. Una cifra ben lontana da quella fornita dalla fonte più citata: l’Assistance Association for Political Prisoners (Aapp) secondo cui, al 9 febbraio 2023, il bilancio era di 2.981 vittime civili accertate. La differenza sta proprio nel fatto che in questo caso si tratta di uccisioni di civili “certificate” (nome, luogo, data).

Il 2022 si era invece aperto tra le polemiche sul viaggio compiuto il 7 gennaio dal premier cambogiano Hun Sen, Presidente di turno dell’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico di cui il Myanmar fa parte. Il viaggio, pensato come una forma di diplomazia individuale dal dittatore cambogiano, non ha sortito effetti e Hun Sen non ha potuto incontrare Suu Kyi, come già prima un inviato ad hoc dell’Asean. È stato l’ennesimo fallimento della diplomazia di fronte ai militari che il primo febbraio 2021 hanno preso il potere con un colpo di Stato guidato dal generale Min Aung Hlaing (già a capo di Tatmadaw, l’esercito birmano), rovesciando il Governo civile di Aung San Suu Kyi, arrestata col Presidente Win Myint e altri esponenti della Lega nazionale per la democrazia. L’8 novembre 2020, la Lega aveva vinto la maggioranza dei seggi in Parlamento con un consenso più ampio rispetto alle legislative del 2015. Nel corso del 2022 si sono consumate nuove condanne ad Aung San Suu Kyi, all’ex Presidente e ad altri esponenti della Lega mentre la Giunta militare ha eseguito in luglio anche quattro esecuzioni capitali, fatto che non avveniva dagli anni ‘80. Dopo il golpe di febbraio è iniziata in tutto il Myanmar una protesta pacifica con centinaia di migliaia di persone nelle piazze e una sorta di sciopero diffuso in tutti i settori vitali dell’economia. Ma questo movimento di disobbedienza civile ha dovuto affrontare una repressione durissima, che si è intensificata con l’andare del tempo e nel settembre 2022 il conteggio delle vittime civili, secondo l’Assistance Association for Political Prisoners, superava i 2.300 morti. Secondo altre fonti, le vittime sarebbero molte di più, anche perché sono stati uccisi numerosi militari. La protesta pacifica si è trasformata nel tempo in una guerra diffusa di alta e bassa intensità, portata avanti sia dalle Forze di difesa popolari (Pdf), che fanno capo al Governo di unità nazionale (Nug – in clandestinità), sia dalla resistenza delle milizie armate regionali, i cosiddetti eserciti etnici (Eao, oltre una ventina) che in parte negoziano con la Giunta e in parte vi si oppongono, specie nelle aree delle comunità karen, kachin e dell’Arakan. Si calcola siano in tutto circa 80mila combattenti. Combattimenti e azioni di guerriglia si sono estesi a macchia d’olio. È stato creato, sulla carta, anche un esercito federale democratico. I più forti sostenitori della Giunta sono i russi, che riforniscono di armi il Paese, ma Tatmadaw ha potuto godere dell’appoggio più o meno diretto anche di Cina, India e Vietnam, che hanno annacquato o ritardato le prese di posizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il 1 febbraio 2023, secondo anniversario del golpe del febbraio 2021, ha visto decidere un prolungamento di altri sei mesi dello stato di emergenza, una scelta che contrasta con la stessa Costituzione scritta dai militari nel 2008. Nello stesso giorno,  nelle principali città del Paese, molti birmani hanno incrociato le braccia in uno “sciopero silenzioso” diffuso, il quarto dal golpe del 2021.

Per cosa si combatte

Il Myanmar è “l’occhio del Buddha”, scrive lo storico Thant Myint U nel saggio Where China Meets India. “Tracciate un cerchio attorno a Mandalay, nel centro della Birmania, con un raggio di circa 700 miglia: racchiude gli Stati del Bengala Occidentale e del Bihar in India, le Provincie cinesi dello Yunnan e del Sichuan, nonché il Tibet, mentre a Sud copre la maggior parte del Laos e della Thailandia. Quel cerchio è popolato da circa 600milioni di persone”. La collocazione strategica del Myanmar lo rende dunque una tessera fondamentale del domino asiatico: per i cinesi è lo sbocco sull’Oceano Indiano, dove sbarcano energia e beni indispensabili allo sviluppo della Repubblica popolare; per l’Occidente è un terreno di scontro con Pechino; per i Paesi del Golfo, la connessione tra Indonesia e Bangladesh. È lo scenario perfetto per alimentare tensioni interne adattandole a interessi esterni, ora sconvolti dall’ennesimo golpe. Protagonisti sono sia i militari sia i signori della guerra che gestiscono eserciti “etnici” regionali e ottengono finanziamenti occulti, oltre a quelli prodotti dal narcotraffico. La loro esistenza risale alla liberazione dal Regno Unito nel 1948, che ha visto fallire il sogno unitario di Aung San (padre di Suu Kyi) e la nascita di decine di focolai di guerriglia autonomista o separatista. Il Governo democratico aveva tentato, con qualche successo, di lavorare a un processo di pace che portasse a una federazione e a una nuova Costituzione che riconoscesse i diritti delle oltre 130 nazionalità. Ma il golpe ne ha condizionato il cammino.

Quadro generale

Il Myanmar, a lungo chiamato Birmania, si affaccia sul Mar delle Andamane nel Golfo del Bengala e fa parte dell’Asean, l’Associazione regionale del Sudest asiatico. Ha alle spalle una lunga storia di dittature militari seguite all’esperimento democratico di Aung San, eroe della liberazione dal Regno Unito (1948). Queste dittature cominciano nel 1962 e solo nel 2010 il Governo militare birmano attua una serie di graduali riforme politiche che hanno portato alla scarcerazione degli oppositori politici, tra cui Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia. Le prime elezioni parlamentari parzialmente libere risalgono al 2012, ma la svolta vera è la consultazione del 2015: la Lega nazionale per la democrazia ottiene la Presidenza del Paese (Win Myint) mentre Suu Kyi ottiene il ruolo di Consigliera di Stato (di fatto, primo Ministro). Alle elezioni del 2020, la vittoria della Lega si ripete con una maggioranza più forte, ma dopo un lungo contenzioso su possibili brogli (esclusi dagli osservatori internazionali), i militari prendono il potere nel febbraio 2021. Gli osservatori non riescono a spiegare la decisione di Tatmadaw, che poteva comunque contare per Costituzione sulla Vicepresidenza, tre Dicasteri chiave (Interno, Difesa, Frontiere), la possibilità di sciogliere la legislatura e su un quarto dei seggi in Parlamento. I militari inoltre controllano e controllavano, attraverso conglomerati e aziende collegate, praticamente l’intera economia birmana, formale e illegale.

Non è solo la politica a essere complicata in Myanmar: comprendere l’ex Birmania è impossibile, per esempio, se non si considera l’immanenza del Theravada, una delle correnti del buddismo, diffusa anche in Thailandia, Laos e Cambogia. L’altra è il Mahayana, che abbraccia Tibet, Mongolia, Cina, Giappone e Vietnam. La differenza più profonda sta nel metodo per seguire il Dharma (termine che indica sia le leggi sia il fatto di metterle in pratica) e raggiungere il Nirvana (pace assoluta). Il Mahayana è incentrato sulla dottrina della compassione universale, sulla condizione di Bodhisattva, colui che rinuncia al Nirvana per aiutare l’umanità nel pellegrinaggio che conduce a esso. La meta del Theravada è la salvezza personale. A questo fine, particolare rilevanza è data alla vita monastica, mentre per i laici è importante accumulare meriti facendo donazioni e offerte al Buddha e ai monaci. Il che spiega l’affermazione di un missionario cristiano in Myanmar: “Avere il monaco significa avere la coscienza del popolo”. I Draghi, gli Orchi e i Deva, gli angeli hindo-buddisti, sono altri personaggi chiave della cosmogonia birmana: secondo la leggenda, fu l’alleanza tra i loro re, circa 600 anni prima dell’Era Comune, a permettere l’avverarsi della profezia che preconizzava l’avvento del regno dei Pyu lungo il corso dell’Ayeyarwady (Irrawaddy), che attraversa il Paese da Nord a Sud e lo collega (a Nord-ovest) ai bacini del Brahamaputra e del Gange. Più o meno nello stesso periodo, altri regni e popoli vantavano origini divine e legami col Buddha: è il caso degli arakanesi, secondo cui il Buddha sarebbe arrivato nella loro Regione 2.600 anni fa.

Molte delle realtà regionali (in particolare lo Stato Chin, Kachin, Karen, Arakan, Shan) sono in una situazione di ciclico conflitto con il Governo e hanno costituito gruppi armati più simili a eserciti che a milizie rivoluzionarie. Le tensioni etniche, dunque, hanno caratterizzato la storia del Myanmar sin dal 1947, dalla vigilia della sua indipendenza. Fu in quell’anno che il generale Aung San organizzò la conferenza di pace di Panglong per cercare un accordo tra i maggiori gruppi etnici. Accordo poi vanificato dopo la sua uccisione, qualche mese più tardi, e osteggiato dai successivi Governi militari che dominarono il Paese dal 1962 e costituirono una vera e propria etnocrazia bamar (la comunità etnica più numerosa). Aung San Suu Kyi ha riproposto il processo di pace nel maggio 2018, facendo un piccolo passo avanti nel percorso di riconciliazione nazionale, passo poi reso inutile dall’accendersi di nuovi fronti e col collasso della svolta democratica. Il tortuoso percorso verso un equilibrio etnico è lo specchio di quella road map verso la democrazia intrapresa nel 2010 col primo Governo “semicivile” e la liberazione di Suu Kyi e che sembrava aver subito una decisa accelerazione nel 2015 con la vittoria della stessa Suu Kyi alle elezioni, vittoria ripetutasi nel novembre 2020. Cammino ora interrotto dal golpe del 2021.