Yemen-Arabia Saudita

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Il 2 ottobre 2022, allo scadere di una tregua di sei mesi concordata tra le parti il 2 aprile e rinnovata il 2 giugno, un nuovo accordo è fallito per opposizione soprattutto degli houthi. Il 30 settembre, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva rivolto alle forze in campo un messaggio di speranza dopo quasi otto anni di guerra inframezzata da sporadiche tregue per garantire l’azione umanitaria.

“Negli ultimi sei mesi – scriveva Guterres – il Governo dello Yemen e gli huthi hanno compiuto passi importanti e coraggiosi verso la pace accettando e rinnovando due volte una tregua nazionale negoziata dalle Nazioni Unite. Esorto vivamente le parti yemenite non solo a rinnovare ma anche ad ampliare i termini e la durata della tregua, in linea con la proposta loro presentata dal mio inviato speciale, Hans Grundberg”.

Qualche giorno prima, Grundberg aveva incontrato a Riad Rashad Al-Alimi, Presidente del Presidential Leadership Council dello Yemen, e alti funzionari sauditi. Il giorno prima, in Oman, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri del Sultanato Badr Albusaidi, aveva avuto colloqui anche con il capo negoziatore degli houthi: il finale degli sforzi per arrivare a una riconferma della tregua in cui erano riposte le speranze di una svolta.

La tregua, entrata in vigore il 2 aprile, ha effettivamente portato al periodo di relativa calma più lungo dall’inizio della guerra, che ha permesso non solo di migliorare l’azione di sostegno umanitario, ma anche una significativa riduzione della violenza e delle vittime civili a livello nazionale (meno 60%), un aumento delle consegne di carburante attraverso il porto di Hudaydah e la ripresa dei voli commerciali internazionali da e per Sana’a per la prima volta in quasi sei anni. Ciò ha aiutato 21mila yemeniti ad accedere a cure mediche salvavita.

“Questo – diceva ancora il messaggio di Guterres – è il momento di sfruttare i risultati conseguiti e intraprendere un percorso verso la ripresa di un processo politico inclusivo e globale per raggiungere una soluzione negoziata per porre fine al conflitto”.

Gli ha fatto eco un messaggio di 44 organizzazioni umanitarie che hanno ricordato come, dopo oltre sette anni di conflitto, 23,4milioni di persone in Yemen dipendono dall’assistenza umanitaria mentre continuano ad aumentare i feriti e i decessi a causa di mine e ordigni inesplosi.

In un appello del 29 settebre 2022, scrivevano: “Una proroga più lunga della tregua sarebbe il primo passo per sfruttare ulteriormente i guadagni degli ultimi sei mesi. Se il conflitto ricomincia ora, non solo rischia di distruggere i guadagni già realizzati, ma minaccia il futuro sviluppo dello Yemen”.

 

Per cosa si combatte

Tra le ragioni del conflitto in corso, lo Yemen paga la sua posizione profondamente strategica a gomito tra l’Oceano Indiano e il passaggio verso il Mar Rosso attraverso lo Stretto delle Lacrime (Baab al Mandab).

Chi controlla questo Stretto e il Golfo di Aden controlla di fatto il passaggio dei carichi di idrocarburi dallo Stretto di Hormutz al Canale di Suez. Un bottino appetitoso per tutte le potenze regionali e internazionali (Usa, Uae, Turchia) che negli anni hanno posizionato le loro basi navali sulla sponda opposta, in particolare in Gibuti.

L’instabilità dello Yemen è dunque una grande occasione per occupare anche la costa Sud del Paese e avere una posizione privilegiata sul mare, occasione già colta dagli emiratini che hanno occupato Aden e l’isola di Socotra. Nonostante si tenda a leggere questo conflitto come una guerra per procura, minimizzandone la sua portata locale, lo Yemen resta un terreno di scontro ideale per Arabia Saudita e Iran. La prima vede nel Paese il suo potenziale giardino di casa, come l’Iraq lo è per l’Iran; Teheran ha interesse a impedire che questo scenario si concretizzi e non ostacola l’avanzata degli alleati locali houthi al confine di terra del competitor regionale, anche per testare, con lancio di droni armati, la vulnerabilità di Riad.

Entrambe le potenze regionali sono interessate alla conquista del governatorato del Marib, ricco di petrolio, e ai porti della costa yemenita occidentale di Mokha e Hodeida, vicinissimi ai confini di mare sauditi.

Quadro generale

Il conflitto yemenita nasce nel 2014, ma la data di inizio convenzionale è la notte tra 24 e 25 marzo 2015, quando l’aviazione delle Lega Araba a guida saudita iniziò a bombardare la capitale Sana’a. La campagna di guerra “Decisive Storm”, che sarebbe dovuta essere breve e chirurgica nelle intenzioni formali del Governo centrale yemenita che l’aveva richiesta ai suoi alleati, è durata anni. L’obiettivo sarebbe dovuto essere l’eliminazione manu militari delle milizie sciite houthi, che dall’agosto 2014 avevano occupato la capitale Sana’a defenestrando poi il Governo del Presidente Rabbo Mansour Hadi, costretto alla fuga. La realtà dei fatti è che la campagna militare ha contenuto e ridimensionato l’avanzata degli houthi (che erano riusciti, attraverso anche all’appoggio finanziario e strategico dell’Iran, ad occupare il Paese fino alla punta Sud, nella città di Aden), ricacciandoli indietro verso Taiz, loro avamposto meridionale. Ma “Decisive Storm” non è stata né breve né chirurgica e ha di fatto diviso il Paese in un Nord saldamente in mano agli houthi e in un Sud ancora sotto controllo governativo ma con molte turbolenze, incertezze e influenza di gruppi separatisti, da al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) a una sparuta presenza dello Stato Islamico (Wilaya Sana’a).

La situazione attuale dello Yemen è frutto dell’instabilità successiva alla rivoluzione del 2011, quando il partito Islah dei Fratelli Musulmani yemeniti riuscì a incanalare le proteste contro i trentatré anni di dittatura del Presidente Ali Abdullah Saleh in una transizione che avrebbe dovuto portare alla redazione di una nuova Costituzione, a elezioni, un nuovo Parlamento e un nuovo Governo. La Conferenza di Unità Nazionale, che lavorò per diciotto mesi dentro l’albergo Movenpick di Sana’a e che vide intorno al tavolo delegazioni rappresentative di tutte le tribù del Paese, dei partiti, della società civile, dei giovani e delle donne, non riuscì a raggiungere il quorum su tre punti: disarmo delle tribù, Stato federato e soprattutto amnistia per l’ex Presidente Saleh e per i suoi famigliari esiliati dal Paese, sanzionati e con i beni congelati. A opporsi furono i due maggiori gruppi separatisti del Nord (gli houthi) e del Sud (al-Hiraki), coloro che sono stati gli attori locali più attivi e intransigenti di questo conflitto. Gli houthi non si limitarono a boicottare la Conferenza ma si organizzarono per stipulare un’alleanza di comodo con Saleh che governò al loro fianco finché, nel dicembre 2017, non lo assassinarono.