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Turchia, sempre meno tutele per le donne

Una bandiera a Istanbul, foto di Alice Pistolesi

di Alice Pistolesi

Con un decreto pubblicato nella notte tra il 19 e il 20 marzo il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale che stabilisce standard legalmente vincolanti in circa 30 paesi per prevenire la violenza di genere. Soprannominata la Convenzione di Istanbul, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, è il primo e più completo trattato internazionale che affronta specificamente queste questioni.

Per protestare contro la decisione diverse migliaia di persone hanno manifestato in Turchia nella giornata di sabato 20 marzo per invitare il presidente Recep Tayyip Erdogan a revocare la sua decisione di abbandonare. Il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul è “una notizia devastante” e “compromette la protezione delle donne” nel Paese, ha affermato il Consiglio d’Europa. La Turchia è membro dell’organizzazione paneuropea e ha firmato il trattato nel 2011.

La decisione, presa nonostante il numero di donne uccise in Turchia sia in aumento da anni, ha suscitato l’indignazione delle organizzazioni per i diritti delle donne e critiche dell’Unione europea. Secondo la piattaforma turca contro i femminicidi Kadin Cinayetlerini durduracagiz platformu nel 2020 almeno 300 donne sono state uccise e 99 sono state costrette a cambiare identità e a trasferirsi, per sfuggire a ex mariti, compagni e fidanzati. 171 morti di donne inoltre restano sospette, così come i suicidi. Nel 2019 e 2018, erano stati rispettivamente 474 e 440 i casi di femminicidio in Turchia.

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Erdogan aveva già minacciato di voler uscire dal trattato, secondo gli osservatori con l’obiettivo di mobilitare il suo elettorato conservatore di fronte alle crescenti difficoltà economiche. Secondo alcuni gruppi conservatori e islamisti, infatti, il testo danneggerebbe i valori della famiglia “tradizionale” difendendo l’uguaglianza di genere e favorirebbe la comunità LGBT. Il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, uno dei principali rivali di Erdogan, ha accusato il presidente di “calpestare la lotta che le donne portano avanti da anni”.

Di fronte alle critiche, il governo ha cercato di rassicurare. “Le nostre istituzioni e le nostre forze di sicurezza continueranno a combattere la violenza domestica e la violenza contro le donne”, ha affermato il ministro dell’Interno Süleyman Soylu. Nonostante queste dichiarazioni, i gruppi per i diritti delle donne accusano il governo di non applicare le leggi esistenti con forza sufficiente.

In una dichiarazione le Nazioni Unite hanno invitato la Turchia a riconsiderare il ritiro. “Siamo preoccupati – si legge- che il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul mini gli sforzi significativi investiti finora per prevenire e combattere la violenza contro le donne e potrebbe ostacolare i progressi verso un ulteriore rafforzamento dei quadri legislativi, politici e istituzionali nazionali”.

Secondo l’ultima ricerca nazionale sulla violenza contro le donne (2014) il 38% delle donne sposate ha subito violenza fisica e/o sessuale nel corso della vita. Situazione peggiorata con la pandemia di coronavirus che ha portato a un’ulteriore escalation di violenza contro donne e ragazze a livello globale, a causa delle restrizioni ai movimenti, dell’isolamento sociale e dell’insicurezza economica.

L’Onu ha anche notato che la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione e che ha adottato misure chiave per allineare la sua legislazione nazionale all’accordo, anche tramite una legge sulla protezione delle famiglie e sulla prevenzione della violenza contro le donne.  “Esortiamo – continuano – il governo della Repubblica di Turchia a continuare a proteggere e promuovere la sicurezza per i diritti di tutte le donne e le ragazze, anche rimanendo impegnati per la piena attuazione della Convenzione di Istanbul”.

Ma la repressione governativa nei confronti delle donne in Turchia non inizia con il ritiro dal trattato. Per anni, infatti, tutte le marce organizzate in occasione della Giornata internazionale della donna sono state represse cariche della polizia, gas lacrimogeni e alcuni arresti.

E anche se la manifestazione del 2021 si era svolta con assoluta calma, il clima è cambiato pochi giorni dopo. L’11 marzo la polizia turca ha infatti emesso un mandato di cattura per 18 donne che avevano partecipato alla protesta con l’accusa di aver insultato il presidente. “Sono state esaminate – ha riferito l’ Ufficio del governatore di Istanbul in una dichiarazione – le immagini di gruppi di persone che urlavano slogan durante l’azione denominata Marcia notturna femminista per la Giornata internazionale della donna. Sono stati arrestati un totale di 13 dei 18 sospetti identificati.

Le detenute potrebbero essere condannate fino a quattro anni di carcere per gli slogan che hanno cantato durante la protesta. Un’accusa questa che è stata utilizzata migliaia di volte in questi anni: il numero di casi aperti e condanne di cittadini turchi per “insulto al presidente” si è moltiplicato in modo esponenziale . Secondo quanto riporta El Periodico, infatti dal 2015 al 2019 i tribunali hanno condannato 21.378 per questo crimine.

Proprio l’8 marzo 2021 si è conclusa la campagna per arrivare al riconoscimento del femminicidio come crimine contro l’umanità e come forma di genocidio e “condannare così Erdoğan per i suoi crimini”. Il movimento delle donne curde in Europa (Tjk-E) ha infatti concluso nella Giornata Internazionale dei diritti delle donne la campagna “100 motivi per condannare il dittatore”, partita il 25 novembre 2020.

Con questa campagna, sosteneva il Tjk-E “vogliamo attirare l’attenzione sulle politiche femminicide dell’Akp e di Erdoğan. Vogliamo giustizia: chiediamo che l’Akp (il partito al potere, ndr) venga condannato. Vogliamo porre fine alla violenza contro le donne nella Repubblica turca, dove ogni giorno almeno una donna viene uccisa dalla violenza sessista”.

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