I semi di Yaya

Testo e foto di Luca Greco
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«Vivo qui. Lavoro qui. Basta discriminazioni».

«Giustizia per Yaya».

«Yaya è tutti noi».

Queste le uniche parole, ripetute come fossero un mantra durante tutto il corteo, che riecheggiano per le vie di Ferrara. Nessuna bandiera. Nessuno slogan. Era il 30 ottobre del 2021 e Yaya era appena morto.
Eppure, proprio in quelle parole sta il senso più profondo della manifestazione.

La catena infinita degli appalti scarica sugli ultimi, sui più ricattabili, il costo dell’economia capitalista. E gli ultimi sono i migranti. Contratti di pochi giorni, nessuna formazione, nessun presidio di sicurezza. Questi lavoratori e queste lavoratrici vengono usati come carne da macello. E come in un macello muoiono. Schiantati dalle macchine. Yaya Yafa muore così: al suo terzo giorno di lavoro, schiacciato da un camion, mentre lavora in uno dei poli nazionali della logistica.

Gli amici e le amiche di Yaya chiedono giustizia. Organizzano il corteo. Una manifestazione di migranti in ricordo di un migrante. Con buona pace dell’eurocentrismo che spesso emerge quando si parla di immigrazione.
Fra una preghiera ed un canto, il corteo si snoda per la città. Rabbia e lacrime lo accompagnano.
Ed una richiesta. Che lega e tiene assieme tutti, non solo i migranti: basta accettare condizioni di lavoro indegne. Basta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Ma perché tutto questo avviene? Perché proprio la morte di Yaya scatena questa voglia di uscire dal buio?

Il racconto fotografico che qui vedete esposto prova a rispondere a questi interrogativi. Le foto, alternate alle parole di chi Yaya lo ha conosciuto, vanno lette come una risposta collettiva al bisogno di giustizia e di verità che la morte, e la vita, di Yaya portano con sé. È un tentativo di raccontare la storia, o per meglio dire le storie, della migrazione dalla parte dei migranti.
Dare voce a chi normalmente non riesce a parlare. Illuminare visi, mani e racconti che di norma vengono volutamente respinti nel buio dalla retorica razzista e nazionalista. Essere megafono: questo è l’obiettivo di questa raccolta di immagini e parole.

E così Yaya diventa una scintilla che accende il desiderio in chi lo conosceva di mostrarsi, di raccontare se stessi attraverso lui.

Eccoli, i semi di Yaya.

“Io non sono scappato dalla guerra, io sono arrivato in Italia per amore. In Italia ho trovato occupazione prima come mediatore culturale per una cooperativa sociale che si occupava di accoglienza. Poi ho lavorato come interprete e traduttore per la Prefettura. Con il mio lavoro ho aiutato tanti di loro ad ottenere un permesso di soggiorno. In quel periodo ho ascoltato moltissime storie di migranti: testimonianze di minorenni che hanno attraversato a piedi il deserto del Sahara, racconti di uomini incarcerati e torturati, storie di donne stuprate nel campi di detenzione in Libia. Tutto questo ti entra dentro e non esce. Piangi ad ogni parola. E alla fine non riesci più a tradurre.

Mi chiedi se sono stato vittima di discriminazione razziale? Certamente si. Sono stato fermato molte volte per il colore della mia pelle. Una volta, mentre ero in coda per salire su un treno, il controllore ha chiesto, solo a me, il biglietto. Mi sono rifiutato di mostrarlo perché questa richiesta era stata fatta solo a me. So che alcuni ragazzi di colore salgono sui treni senza avere il biglietto, ma questo non giustifica un atteggiamento razzista. Io ho una mia dignità che nessuno può violare.

Ho conosciuto Yaya per caso, a casa di un’amica comune. La morte di Yaya è stata difficile da affrontare. Ho ancora negli occhi la sua immagine prima e dopo la morte. Sono stato io ad accompagnare il fratello a riconoscere la salma. Yaya aveva voglia di vivere, di lavorare. Era uscito dal programma di accoglienza. Aveva accettato il lavoro che lo ha ucciso per poter pagare le bollette, per poter sopravvivere. Era il portiere della nostra squadra di calcio. La morte di Yaya è stata una scintilla. Yaya era un ambasciatore e la sua morte è stata un terremoto per tutta la comunità africana. Mio padre mi raccontava che alcune persone che conosci da sempre scompaiono senza far rumore, mentre altre che magari incroci solo per un momento della tua vita muoiono e lasciano un segno indelebile. Yaya è stata questo secondo tipo di persona. Ed ecco perché abbiamo deciso di manifestare. In piazza per Yaya c’era tutta l’Africa”.

Abdou Diakhate

“Ho parlato con Yaya una sola volta. Gli avevo chiesto un favore e lui, che non mi conosceva, mi aveva detto di si. Un vecchio libro di scuola che leggevo in Guinea racconta che il bene ed il male fatto agli altri in realtà è fatto a se stessi: Yaya lo aveva fatto per lui, non per me. Perché lui era così. Dopo la morte di Yaya c’era molta rabbia. Soprattutto per il modo in cui è morto. Nei magazzini lavori per mesi con contratti che però durano 2/3 giorni e vengono di volta in volta rinnovati. Non potevamo limitarci allo sciopero, dovevamo mostrare la nostra rabbia. Per questo abbiamo organizzato il corteo.

È importante che la nostra storia sia raccontata da noi in prima persona perché solo noi sappiamo cosa è stato arrivare in Italia e com’è vivere qui.

Io sono stato costretto a lasciare la Guinea. Nel mio paese non si può criticare il Presidente senza correre il rischio di essere ucciso. Per questo sono partito. E ho attraversato il mare. Chiunque lo abbia fatto sa che non vuole farlo mai più: vedere altri morire accanto a te è una esperienza umanamente inaccettabile. Attraversando il mare, ho deciso di correre il rischio di morire. Il barcone sul quale viaggiavo si è rotto in due parti. Sono morte sei persone. Per fortuna io sono vivo e posso parlare di quelle persone che ora non ci sono più. Che hanno lasciato la propria famiglia, la propria cultura, la propria infanzia solo per cercare una nuova speranza nell’altro lato del Mediterraneo. Quando ho visto la divisa dei volontari della Croce Rossa spingersi in mare per salvarci, ho deciso che ne sarei diventato un volontario: l’ho fatto per provare a restituire agli altri una parte di quello che io ho avuto”.

Rachid Camara

“Io non conoscevo Yaya, ma la sua morte mi ha molto colpito. Yaya ha vissuto una vita simile alla mia, anhe lui è passato dalla Libia e quel viaggio è una esperienza inimmaginabile.

Dalla Guinea al Mali, dal Niger alla Libia. Sono stato rinchiuso in una cella. «Fino a quando voi o i vostri familiari non pagano non vi liberiamo». Visto che a casa non avevo nessuno che potesse pagare per me, ho aspettato. Ho aspettato assieme ad altre persone, del tutto simili a zombie. Non sono riuscito a salvare un ragazzo da un pestaggio mortale. Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Sdraiati per terra gli uni accanto agli altri, ammassati come sardine. Nel piscio di tutti. Così abbiamo aspettato. Penso ancora a chi oggi vive in quelle prigioni: è come se fossi ancora lì dentro. In fila indiana davanti al barcone si entra uno dopo l’altro. 100 o 200 persone in un gommone. Ho visto il mare e ho pensato: questo è il posto dove morirò. Quando vedi quelle onde sai che non puoi sfuggire alla morte. Ti dicono che in tre ore di viaggio sarai in Italia. E dopo tre giorni ti accorgi di essere semplicemente disperso in mezzo al mare. Poi il gommone si buca e l’acqua inizia ad entrare. E il barcone ad affondare. Per fortuna c’era questa barca grande che sembrava aspettarci. Ci hanno salvato. Le ONG ci hanno salvato. Non tutti però e io ancora piango per loro, li ricordo come fratelli e sorelle, come membri della mia stessa famiglia. Questo è stato il mio viaggio.

Per mantenermi ho lavorato in campagna, nella raccolta dei pomodori. Eravamo solo immigrati. Venivamo sfruttati e pagati male. La vita di noi neri non è tenuta in considerazione, ci pensano come animali e con noi pensano di poter fare ciò che vogliono. Io non merito di essere trattato diversamente da un lavoratore italiano. Chiunque di noi poteva morire come Yaya. Per questo abbiamo organizzato il corteo. Per denuniciare tutto questo”.

Lamine Kalabane

“Io non conoscevo Yaya. Ma quando lui è morto mi sono mosso subito per organizzare la manifestazione. Perché mi chiedi? Perché è un essere umano. In Guinea io ho sempre manifestato contro le discriminazioni. Ed ho ripreso a farlo qui. Per me è normale. Alcuni hanno paura di manifestare perché hanno paura di non poter in seguito avere i documenti. Il mio sogno è lottare per le persone più deboli. Io guardo la vita, non un pezzo di carta.

Abbiamo pensato di creare un coordinamento delle associazioni dei migranti per non essere invisibili. Viviamo qui, lavoriamo qui, è giusto che la gente sappia che siamo qua. Yaya è morto, ma tanti ragazzi lavorano nelle stesse condizioni di Yaya, rischiano la vita per non morire di fame.

Io non ho i documenti e non posso tornare a casa, non posso andare in Francia, secondo la legge italiana posso solo stare qui. Questa legge io la voglio combattere perché ognuno deve essere libero. Nella vita non dobbiamo guardare il colore della pelle, l’importante di ogni persona è il suo essere.

Per arrivare qui, io ho fatto un viaggio di un anno e sei mesi attraversando tanti paesi dell’Africa: Mali, Niger, Burkina Faso. E poi sono arrivato in Libia. In Libia sono rimasto per sette mesi ed alla fine ho deciso di attraversare in mare ed in mare ci sono rimasto per cinque ore. All’alba il barcone si è spezzato e dei 122 ragazzi ne sono morti 99. Per fortuna io sono stato salvato”.

Dian Diallo

La storia del reportage

Foto scattate da Luca Greco nel 2021 e 2022 a Ferrara