La guerra infinita del Vietnam

Foto e testi: Matthias Canapin
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La guerra è davvero terminata nelle lande della Piccola Tigre? Appoggiandomi alla fondazione VAVA (Vietnam Association Victims Agent Orange) ho l’opportunità di visitare ospedali e catapecchie, incontrare politici, medici, morti che camminano. Il primo tra tutti è il presidente dell’associazione, Nguyen Van Rinh, appollaiato nel suo ufficio colore smeraldo, alle prese con un bicchiere di whiskey ghiacciato. Un burocrate, in perfetto stile dittatoriale, registra tutte le domande che pongo al sommo capo. “VAVA è un’associazione umanitaria fondata il 17 dicembre 2003, formata da dottori, religiosi, scienziati e vittime della diossina agente arancio. Gli aerei statunitensi hanno spruzzato 80milioni di litri di defogliante chimico tra il 1961 ed il 1971 causando disastri umani e ambientali impensabili. 3milioni di ettari di foreste, comprese aree ecologiche protette, sono stati devastati. 4.8milioni di vietnamiti sono stati esposti alla diossina e 3milioni di essi hanno contratto tumori e malattie, nonché gravi malformazioni nel caso dei bambini di seconda o terza generazione.

Per più di trent’anni non c’è stato nessun tipo di aiuto nei confronti delle vittime, ma poi qualcosa è cominciato a cambiare. I più grandi aiuti economici sono giunti dalla Korea, Giappone e Sud America. Oggi aiutiamo mensilmente 200.000 vittime di cui 5.000 veterani e 600 bambini. Coi soldi donati da associazioni estere, volontari e sostenitori siamo riusciti ad estenderci in tutto il paese attivandoci in 59 province, 522 distretti, 5.880 comuni, contando 315.000 membri effettivi”. Nguyen si concede un altro sorso, il registratore continua il compito prestabilito. “Il sud del paese è stato maggiormente colpito dalla diossina ma anche il nord non scherza mica. Ho visto coi miei occhi di giovane recluta gli aerei sganciare polvere gialla, le foreste divenire vuote man mano, gli alberi spogliarsi delle ultime foglie”.

Sfoglio un libro obsoleto, contenente immagini in bianco e nero: trincee, esplosioni, soldati, civili ammazzati. Leggo la storia di Diu e Pham Thi Nuc, i quali hanno messo al mondo quindici figli. Ben dodici sono morti prima dei tre anni, stroncati dalle complicazioni da agente arancio. Gli unici tre sopravvissuti hanno gravi malformazioni fisiche. Non c’è felicità per noi, non abbiamo futuro scrive la coppia in una intervista datata marzo 1987. Prima di scivolare lungo le enormi scalinate, scruto il burocrate di nome Tuan socchiudere la porta dell’ufficio ed elargire al presidente una bustina bianca contente mazzette di dollari.
Nel reparto dei veterani, situato all’interno della struttura governativa villaggio dell’amicizia, le stanze sono tutte vuote. I passi riecheggiano nei corridoi, pochi vestiti appesi a fili di nylon. Scorgiamo un anziano reduce fissare la Tv. Da vicino appare un uomo rinsecchito, minuto, con le guance scavate e le orecchie a sventola, quasi scomparso dentro l’uniforme verde. Ci dà il benvenuto con un sorriso spento. “Nel 1966 sono stato arruolato. La mia pelle bruciava sotto effetto della diossina, non riuscivo a respirare, ho dovuto oltrepassare numerose trincee e campi di battaglia per ricevere soccorso. Quando combattevamo nessuno dei presenti sapeva cosa stesse accadendo. La vita al fronte era molto dura. Solo dopo la fine del conflitto gli scienziati ci hanno informati dell’utilizzo di armi chimiche. In più molti barili tossici sono stati abbandonati in aeroporti o falde acquifere inquinando raccolti, bestiame, sorgenti”. Gli occhi dell’anziano si fanno lucidi, rasentano il pianto e rimprovero me stesso per aver avuto così poco tatto nel chiedergli di raccontare un argomento tanto delicato. “Nel 1971 ho trovato rifugio nelle province del sud, stracolme di feriti e amputati. I bombardamenti erano frequenti. Per mesi ho perso l’udito, non riuscivo a parlare, tutti i trentadue denti sono caduti. Una volta mi sono rifugiato nella foresta, ho visto con questi occhi – indica le orbite gelatinose – due aerei volare molto bassi e scaricare pulviscolo sugli alberi. Il cielo, in un lampo, si è fatto giallo, viola, a tratti blu cobalto. La pelle è diventata liscia come olio, non c’era acqua potabile nel raggio di km. Interi ettari di buona terra spariti, le foglie degli arbusti sgretolate. Senza il fogliame gli statunitensi potevano stanarci, ma ben sapevano che sotto quelle fronde non c’eravamo solo noi, ma soprattutto donne e bambini, contadini e studenti di ritorno da scuola. L’inferno è stato vissuto da ambo le parti. Leggevo che molti soldati americani si sono ammalati per avere inalato le particelle tossiche dell’agente arancio. Come me immagino abbiano un sacco di tumori nel corpo e dolori giornalieri insopportabili. Vivo a 70 km da qui, ho dimenticato le medicine a casa e questo è il quarto giorno che non dormo. Il mio nome è Nguyen Da Thuong e sono nato il 12 ottobre 1945”.

Mi stringe le mani per qualche secondo, annuendo come se avesse tutto chiaro. Tuan non si scompone. Nel cortile ci imbattiamo in altri due veterani appena tornati da Saigon, attuale Ho Chi Minh City. Provengono dalla zona di Thai Bi, una delle province vietnamite più povere, nella quale il governo ha attuato un nuovo trattamento riabilitativo mirato a migliorare la salute delle vittime per mezzo del rilascio di sostanze sudorifere e di forti medicinali. Vitamine, pillole, ricostituenti, tutto “made in USA”. Bui Bang, il più anziano del duo ha trascorso otto anni in trincea, l’82% del corpo è intossicato e ha ancora una scheggia di bomba nel collo. “Vedi questo bozzo? Qui sotto c’è un pezzo di metallo lungo come il mio pollice. Gradualmente sto perdendo sempre più la voce, per via del contatto tra il ferro e le corde vocali; ma è stato necessario per la libertà del Vietnam e lo rifarei altre cento volte. Il morale è sempre alto!”. Pranziamo in silenzio gustando una ciotola calda di Pho, in una baracca erta lungo un affluente anonimo.
Ly Thi Son ha un sorriso disarmante. Incute dolcezza laddove potrebbe regnare solo rabbia. La intercettiamo davanti casa, mentre tenta di vendere caramelle e lattine Red Bull ai passanti. Ci sediamo sulla sponda del letto in paglia, stretti come sardelle. Suo figlio Tran Van Thi è accucciato in un angolo dello stanzino. “Mio marito è morto pochi mesi fa ed è stato contaminato dall’agente arancio mentre era al fronte. I politici si fanno vedere solo quando fa comodo, donandomi sessanta stupidi dollari come sostegno economico. Nessuno in tempo di guerra sapeva cosa potesse essere quel gas verdognolo che cadeva dal cielo. Sentivamo la pelle bruciare, unta come olio. Quando è nato nostro figlio abbiamo fatto degli esami medici e abbiamo capito. Abbiamo scoperto la verità”. Tran non si muove, non si lava, non mangia e non beve se non grazie all’aiuto della madre. Ha le ginocchia sbucciate, gonfie, nere e lo sguardo perso. Capelli radi, emaciato. Si sposta gattonando in pochi metri di spazio ma non emette parole. Quando il meteo cambia la diossina si fa particolarmente pressante nella zona del cervelletto, facendo esplodere Van Thi in impeti di rabbia e irascibilità indomabili. La madre mi mostra la stanzetta dove è costretta a gettarlo quando il figlio accusa crisi di nervi: un buco soffocante, con sbarre alle finestre, privo assolutamente di qualsiasi oggetto, a parte una stuoia ammorbante che puzza di feci.

L’automobile, dopo aver circumnavigato un lunghissimo corteo funebre, si ferma senza preavviso di fronte ad una scarna abitazione in cemento in un remoto angolo a settentrione. In linea d’aria siamo a circa 200 km da Hanoi, persi tra risaie e buoi. Una ragazza, o forse un’anziana si rotola nel cortile della struttura, gemendo, urlando, grattandosi e ridendo in un misto di raccapricciante follia. Un cagnolino le ronza attorno; quando lei alza la testa infastidita, noto allora che è cieca. Due buchetti azzurri le incorniciano il viso. Non ha capelli, solo rade chiazze di peluria disseminate sul cranio. La mamma emerge dal ventre della casa. Si chiama Le Thi Teo, ha 70 anni ed un braccio ingessato. “Si, la mia storia è uguale a quella di tante altre vedove o donne sparse nel Vietnam. Mio marito ha combattuto, io pure, siamo venuti a contatto con la diossina ed ecco qui il risultato”. Indica con un sorriso il corpo della figlia, confermando poi le parole di Ly Thi Son. “L’umore di Hong Gam dipende molto dal meteo, ma sostanzialmente è impazzita durante il corso degli anni. Se si avvicina un temporale il suo cervelletto ne risente, diventa isterica, nervosa e sono costretta a chiuderla in una stanzina senza finestre, solo sbarre alle pareti in modo che non si autolesioni. Quando si fa i bisogni addosso pulisco tutto col getto di un idrante, per mangiare invece pesca del riso da una ciotola che le lascio appositamente sull’uscio della porta”. Orologi e altarini alle pareti. Continuiamo a parlare, i gemiti pazzi di Hong raggiungono il tavolo scuotendomi dentro. Dietro a tutto ciò alleggia lo spettro della guerra, l’idiozia umana, la mente malata della società con le sue grandi multinazionali ed il business dei circuiti farmaceutici. La storia è ciclica. Morti, dolore, poi le cerimonie, i pianti di circostanza, l’accontentino del governo alle famiglie disastrate.
Un mercoledì ottengo finalmente il permesso per visitare il villaggio della pace, un reparto specifico del Tu Du Hospital dedicato ai bambini dalle due settimane ai dieci anni circa di vita vittime dell’agente arancio. L’epilogo di una storia cominciata nel nord, seguendo tracce di foreste desertiche e occhi vitrei senza memoria. L’ala dell’ospedale è un luogo desolato e fatiscente. Al secondo piano, sigillati dentro boccioni in vetro, galleggiano feti turgidi, partoriti già morti. Una targhetta in plastica ricorda il loro nome, l’età ed il motivo del decesso, gran parte delle volte avvenuta per malformazioni fisiche. Le scale che conducono al terzo piano si animano di schiamazzi, urla, guaiti. Provengono dalle quattro stanze dislocate lungo il corridoio. Un bambino col caschetto nero, privo di occhi, si lamenta in un angolo oscillando il capo, non cambiando mai posizione. Uno strato di pelle scura ricopre le cavità orbitali. Nelle brandine vicine giacciono altri due bambini, con la flebo pizzicato tra le sopracciglia e le gambe legate alle sponde del giaciglio. Chiedo il motivo ed una infermiera, la quale, pacatamente, slega la benda mostrando la gamba del bambino piegarsi al contrario ad altezza ginocchio.
Gravissime malformazioni ossee, articolazioni gonfie, corpi scheletrici, crani spropositati. Migliaia di bambini, ancora oggi, muoiono per colpa di un’arma chimica usata in guerra più di quaranta anni fa. Le vittime vegetali defecano direttamente nel letto, rimanendo sdraiati in una pozza di escrementi. Un medico dal lungo camice bianco mi conferma che i bambini che ho di fronte appartengono alla terza generazione, nipoti di coloro che per prima sono venuti a contatto con l’agente arancio. L’esito è straziante. Fino alla sesta generazione, dicono, non ci sarà segno di miglioramento e tutti sono destinati a morte certa in un’età compresa tra i sei e i vent’anni. Per altri cinquanta anni questa storia andrà avanti nell’ingranaggio del mondo, producendo senza sosta nuove vittime silenziose. Il medico senza nome, dando uno strappo alla regola, mi porge un grembiule conducendomi nel reparto dei neonati. Anch’essi, nei loro corpicini deformi sono mangiati da tumori e bolle infettive. Cammino senza sentire la pressione del terreno, giungono rumori ovattati, guardo il mondo senza vederlo. Lentamente le automobili ricominciano a sfrecciare, i ragazzi a giocare a Takraw, le prostitute a sedurre i passanti. La vita scorre, ma dietro le fronde degli alberi, serrati in quel corridoio maledetto, crepano i fantasmi delle guerre infinite. 1975 – 2015.

La storia del reportage

Questo reportage è stato realizzato per Unimondo e Atlante delle guerre da Matthias Canapin: diari estrapolati dal libro “Eurasia Express-Cronache dai margini” (Prospero Editore)