Ucraina: bossoli e vodka liscia

Foto e testi: Matthias Canapini
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“Nessuno si aspettava che accadesse una cosa simile, tantomeno con la vicina Russia. Gli sfollati, le case bruciate, i bombardamenti nel Donbass. Come popolo abbiamo sempre creduto nella fratellanza e vediamo il mondo senza bandiere né nazionalismi” esordisce Masha, (responsabile AIBI in Ucraina) camminando verso la periferia estrema di Kiev. Dentro una fabbrica in disuso vivono duecento persone, sessanta bambini di cui quattro disabili, tutti quanti scappati da Slovyansk e Kramatorsk. Tanti volontari portano ogni giorno sacchi di aiuti, adagiandoli in un’ampia tenda rinnovata magazzino: giocattoli, medicinali, cibo, prodotti per l’igiene. Si fa incontro Alexey Pretov, un robusto ragazzo dagli occhi azzurri, in prima linea per migliore le condizioni del campo informale. All’ombra di un gazebo si concede una chiacchierata: “Il punto di fuoco ora è la città di Donetsk. Io ed altri compagni eravamo volontari pro-Ucraina, scarabocchiavamo le bandiere russe issate nella nostra città coi colori della patria: giallo e blu. Vivendo sul filo di una guerra imminente, filmavamo ciò che accadeva con i nostri cellulari. Un giorno l’armata russa ci ha catturato. Ci obbligavano a inginocchiarci e pregare, poiché – dicevano – ci avrebbero ucciso con un colpo di pistola alla testa. Grazie all’intervento di un conoscente arruolatosi tra le fila dell’esercito russo siamo riusciti a scappare. Ora mi rendo utile qui, a volte il cibo scarseggia sicché ci diamo il turno per mangiare… pensa che mi ero appena sposato… al prete che ha celebrato il mio matrimonio però è andata molto peggio! L’hanno ammazzato mentre guidava. Solo nel cofano hanno contato cinquanta colpi di kalashnikov”. La tensione grottesca delle retrovie è confermata pure da Lina Sokolova, sfollata da Alcevsk insieme al marito: “Siamo scappati perché non c’erano alternative: a fine di maggio decine di soldati russi sono entrati prepotentemente in città. La situazione si è aggravata quando è arrivata l’artiglieria pesante, manovrata da ragazzotti alti, muscolosi, ben equipaggiati, armi professionali a tracolla come nel film. Ho chiesto da dove venissero e mi hanno risposto senza guardarmi: Rastov, oltreconfine. Fissando quegli occhi freddi, ostili, ho capito all’istante che erano venuti per ammazzarci tutti quanti. I primi spari rimbombavano nelle vie, siamo scappati appena in tempo e ringrazio Dio per questa fortuna. Alcevsk ora è in preda al caos, non c’è pane né acqua, gruppi di banditi pattugliano le strade. Dalla metà di aprile si contano almeno 1150 morti e 3400 feriti tra militari e popolazione civile. La guerra, ormai, ci ha raggiunto fin dentro casa. Chiunque abbia svolto il servizio militare viene buttato nelle zone calde dell’est. Molti tornano avvolti in bare di legno. A volte sono i famigliari stessi che comprano i giubbotti antiproiettile ai propri figli. Diciottenni spediti al fronte senza nemmeno l’equipaggiamento adatto per combattere: carne da macello, ecco cosa sono. Intanto i corrotti sono rimasti al potere sebbene il presidente sia cambiato”.

Al quarto piano dell’ospedale militare di Kiev, un soldato biondiccio, infermo, si avventura nel corridoio. L’esplosione di un mortaio gli ha tranciato di netto una gamba, l’altra è scavata fino all’osso, rammendata con infiniti punti, garze e fasce da cui si intravedono ferite ancora fresche. Incontriamo Lilia, moglie di Fedir, soldato invalido: “Mio marito ha 39 anni. A metà marzo è arrivato l’avviso del reclutamento forzato: se ti opponi alla norma rischi dai tre ai cinque anni di carcere. Si è quasi obbligati ad accettare. In aprile Fedir è partito, l’11 luglio è rimasto gravemente ferito. Il battaglione di cui faceva parte è stato circondato dall’artiglieria pesante, i colpi cadevano come grandine; non ha fatto in tempo a raggiungere la trincea, si è riparato sotto un carro armato. Il ragazzo al suo fianco, 19 anni soltanto, è morto fulminato dalle schegge, mentre mio marito ha riportato una gravissima ferita alla pancia; parte dell’intestino è stato asportato, la gamba sinistra è dimezzata, metà guancia schizzata via. Prima dell’operazione Fedir mi ha raccontato delle condizioni terribili in cui vivevano al fronte. Erano costretti a soppesare le porzioni di cibo giornaliero e farle durare almeno quattro giorni. Bevevano per lo più acqua piovana, non avevano tende adeguate per dormire o ripararsi dai temporali. Spero che tutto si risolva presto, abbiamo due bambini di 8 e 3 anni che ci aspettano a casa”. Intravedo corpi sfibrati, distesi, gran parte amputati. Disegni puerili, raffiguranti colombe bianche, arcobaleni, fiori ma anche armi e miliziani ricoprono le pareti bianche. “Eravamo nelle vie di Lugansk quando ci hanno sparato addosso. Colpi di mortaio, missili, proiettili vaganti. Mi hanno colpito alla gamba sinistra… una lesione troppo grave per poter ricucire i tessuti – dichiara Sasha, 29 anni – occorre ammettere però che i separatisti filorussi, quando il personale medico evacuava i feriti dal campo di battaglia, non hanno sparato un colpo”. Sergey ha 20 anni tondi. Lo osservo mentre ondeggia a ritmo di musica rap. Non riesco proprio a immaginarlo vestito in mimetica, con un paio di granate appese al cinturone. Dice di non aver avuto paura mentre combatteva al fronte, eppure le fotografie che getta con noncuranza sul tavolino sembrano dimostrare esattamente il contrario: un giovane smarrito, impacciato, a tratti euforico, che sghignazza con bombe e fucili a portata di mano. Sergey non parla dell’incidente, si limita a mostrarmi profonde cicatrici sulla testa e nel fianco destro del busto, le quali lasciano spazio all’immaginazione, ancor più cruda delle lacerazioni stesse. Cammino sotto il fascio insistente dei lampioni, seguendo i binari della metro, saltando poi a bordo di un taxi scalcinato diretto a Puscha Voolitsa, località marginale in cui quaranta bambini sfollati da Donestk hanno trovato rifugio giorni orsono. Pini, carpini e siepi di pitosforo proteggono metaforicamente infanzie spezzate: “Vivevo con mia nonna ed il mio padrino a Mariupol. Con il motorino avevo l’abitudine di superare i Check Point dei filorussi. Più t’inoltri nelle zone occupate e più vedi bottiglie vuote di vodka e siringhe a terra. I soldati si ubriacano spesso e per gioco picchiano i civili. Ho visto stuprare ragazze e sparare contro quartieri inermi. Non capisco proprio a cosa serve questa guerra. Un pomeriggio ero seduto con mia nonna in cucina; la casa tremava, i proiettili si avvicinavano. Mia nonna mi ha detto tranquillo, chi è destinato a morire d’acqua, non può morire di fame, cosi ho capito che potevo solo attendere il mio destino” racconta Andrei, 14 anni, evacuato dalla Croce Rossa insieme al restante gruppetto che corre, s’agita, gioca a pallone intorno alle panchine di legno. Oltre ai reticolati del parco una colonna di camion verdognoli si dirige verso oriente. A bordo giovani soldati smunti imbracciano il proprio fucile semiautomatico. Chiedo spiegazioni a Masha, fidata accompagnatrice: “Non so, forse tornano dalla guerra, oppure ci stanno andando proprio ora. Le retrovie del fronte non sono poi così lontane. Fa caso alle chiese, sono sempre più affollate. Le persone in Ucraina hanno perso tutto e si aggrappano alla fede, a qualsiasi cosa possa donare sollievo all’anima”. 

Andrij e Victoria, due volontari della Croce Rossa e sostenitori del primigenio dissenso, caricano barelle, medicinali, flebo e sacchi di riso a bordi di un furgoncino. Lasciamo Kharkiv in tarda mattinata. Per due ore procediamo in aperta campagna, seguendo un serpente d’asfalto assediato dai campi di grano. Odore di zuppe riscaldate e cavolfiori. Tre carri armati sostano lungo la statale, anticipando il primo Check Point militare. Il kalashnikov è onnipresente, la poca voglia di guardarsi in faccia pure. Corrono tempi duri. Donando sempre qualcosa (un rasoio, una saponetta, un pacchetto di sigarette per le guardie più severe), superiamo quattro avamposti prima di raggiungere Sloviansk. Gli edifici giacciono vuoti, crivellati dai proiettili; i tetti sfondati accolgono la pioggia. “Dobbiamo muoverci in fretta – sentenzia Andrij – dopo il tramonto entra in vigore una sorta di coprifuoco. Seppur improbabile, c’è sempre il rischio di incappare in qualche cecchino o banda armata”. Dalle mura pericolanti dell’ospedale civile fuoriescono assi marce e involucri di sale operatorie. La struttura dava soccorso a 500 sfollati in fuga dalla linea di fuoco. Nessuno sa che fine abbiano fatto. Al tramonto, ringalluzzito dall’alcool, Andrij tenta l’arrembaggio puntando l’AK-47 (scarico) contro un barattolo di fagioli. Lasciamo alle spalle i sacchi di sabbia ridotti a colabrodo. Di cecchini nemmeno l’ombra. Kharkiv.

La storia del reportage

Il fotoreportage nasce dai diari raccolti sul campo nel 2014-2015 durante le proteste, l’accoglienza degli sfollati nella regione di Kiev e un viaggio nel Donbass, realizzato seguendo due volontari della Croce Rossa ucraina.