Dossier/ Rohingya: il caso alla Corte dell’Aja

a cura di Alice Pistolesi

La Corte di Giustizia Internazionale continua le sue indagini sul Myanmar, che deve difendersi da molteplici capi d’accusa, riguardanti la violazione della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” nei confronti della minoranza Rohingya, nella regione del Rakhine, finestra birmana sul Golfo del Bengala e confinante con il Bangladesh. Le autorità militari e civili birmane sono state accusate dalla Repubblica del Gambia (vedi Focus 1).

Il procedimento giudiziario sta muovendo i primi passi. In questo dossier ricostruiamo alcuni passaggi e aggiungiamo alcuni elementi di novità legati alla questione Covid-19 e alla (pare) imminente ricollocazione di una parte degli sfollati.

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La ricollocazione

In un probabile tentativo di riabilitazione in vista della sentenza della Corte, è del maggio 2020 la notizia che il campo per sfollati Rohingya a Kyaukphyu, città dello stato di Rakhine verrà spostato in una nuova posizione e dotato di infrastrutture per un costo di oltre 2 miliardi di kyat (1,4 milioni di dollari). A dirlo è stato il vice ministro per gli affari di frontiera, il Generale Than Htut, secondo cui il campo sarà trasferito in un’altra posizione nelle vicinanze. Ci sono piani per costruire 363 case, scuole, servizi igienici, magazzini e strade, nonché per installare acqua corrente ed elettricità.

Il vice ministro ha anche detto che il governo compenserà gli attuali proprietari del terreno in cui si trova il nuovo sito. Secondo il deputato della Camera bassa, U Ba Shein, del distretto di Kyaukphyu sono circa mille le persone ospiti del campo. Secondo il quotidiano Irrawaddy, “il piano di chiusura dei campi per gli sfollati musulmani fa parte della strategia nazionale sul reinsediamento degli sfollati interni e sui campi di sfollamento temporanei in fase di chiusura, che è stata attuata dal Ministero del welfare sociale, del soccorso e del reinsediamento dal 2018”.

Pericolo Covid-19

Fino al 2017 la maggiorparte dei rohingya era residente nello Stato birmano del Rakhine, mentre ora si trova ora all’estero. Il Bangladesh ne ospita la maggioranza, circa un milione. Di questi 750mila sono fuggiti dal Myanmar dopo la violentissima repressione dell’estate 2017. Qui i Rohingya vivono in campi profughi. Nel Sud del Paese si trova l’area del ‘Cox’s Bazar’ che è composto da 34 campi che hanno una densità di popolazione superiore al 40% di quella del Bangladesh. Circa 40mila persone per chilometro quadrato vivono, infatti, fianco a fianco in baracche di plastica. Ogni baracca misura appena 10 metri quadrati e ospita circa 12 persone.

Gli operatori umanitari hanno avvertito più volte della pericolosità della situazione igienico-sanitaria in caso di diffusione del covid-19. Il 17 maggio Mahbub Alam Talukder, commissario per i rifugiati del Bangladesh, ha dichiarato il 15 maggio che due rifugiati che vivono nel Bazar di Cox si sono dimostrati positivi per la malattia e sono stati isolati. Louise Donovan, portavoce dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato il 15 maggio che 108 rifugiati nel Cox’s Bazar sono stati testati per il coronavirus dall’inizio di aprile 2020. Il Bangladesh ha confermato 18.863 casi, inclusi 283 decessi, ma si ritiene che il bilancio sia più elevato poiché nella Nazione dell’Asia meridionale mancano adeguate strutture di test per 160 milioni di persone.

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