Dossier/ Il Covid-19 tra rifugiati e sfollati

La natura altamente contagiosa del Covid-19 e la tipologia di persone più esposte al rischio allerta una delle fasce più deboli del mondo: gli sfollati, i rifugiati, i richiedenti asilo. Come analizzava in un intervista Alessandro Verona, medico che lavora con Intersos nelle baraccopoli di Roma e Foggia, “l’impatto di un epidemia come quella di Covid-19 può essere fortemente aggravato in negativo dalle condizioni sociali, economiche e ambientali nelle quali vivono le persone colpite. In Italia i più fragili sono gli abitanti di baraccopoli, campi rom, senza tetto, carcerati”.

In questo dossier riprendiamo il ragionamento applicato all’Italia e passiamo in rassegna alcune delle situazioni più a rischio nel mondo.

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Le situazioni a rischio

La maggior parte dei 25,9 milioni di rifugiati nel mondo sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo, dove le unità di terapia intensiva hanno sistemi sanitari deboli e di conseguenza meno posti letti e meno ventilatori. La natura di Covid-19 dimostra chiaramente che siamo tutti connessi, non importa dove viviamo e chi siamo. Di conseguenza i più vulnerabili, compresi rifugiati, richiedenti asilo e apolidi, devono avere (nell’interesse di tutti) accesso ai servizi sanitari. In un’intervista sul portale di Unhcr, Ann Burton, capo della sezione di sanità pubblica dell’Unhcr dichiara che “le epidemie passate hanno dimostrato quanto sia fondamentale coinvolgere i rifugiati stessi dal primo giorno, sia per affrontare le loro preoccupazioni nella risposta alle epidemie sia per garantire che prendiamo in considerazione le sensibilità sociali e culturali”.

Tra le attività messe in piedi (vedi Chi fa cosa) l’Alto Commissariato, infatti, sta partecipando a tutte le riunioni di coordinamento di Covid-19 per garantire che i rifugiati restino al centro della pianificazione della risposta. L’espandersi del contagio ha suscitato e suscita timori su ciò che potrebbe accadere se raggiungesse campi di rifugiati densamente popolati. Molte sono nel mondo le situazioni a rischio. Una di queste è il Burkina Faso, che ha registrato al 29 marzo il maggior numero di casi positivi (180) nell’Africa Occidentale e nove morti. Un paese povero, abitato da circa 20milioni di persone, attraversato da instabilità crescente e con circa 765mila persone sfollate, aumentate del 1.200 percento rispetto al 2019. Occhi puntati anche sul Kenya che ospita due campi: Dadaab, vicino al confine Orientale del Paese con la Somalia che alla fine di febbraio 2020 accoglieva circa 218mila rifugiati e richiedenti asilo, e Kakuma, nel Nord-Ovest vicino ai confini con il Sud Sudan e L’Uganda che conta oltre 190mila rifugiati. Per cercare di evitare gli assembramenti e ridurre il contatto tra residenti e operatori umanitari nei campi del Kenya, l’Unhcr ha previsto che la distribuzione di derrate alimentari sia bimestrale, mentre in passato erano distribuite mensilmente o ogni due settimane. L’agenzia ha poi smesso di inviare missioni esterne nei campi per prevenire una potenziale diffusione del virus.

Ma le situazioni potenzialmente esplosive dal punto di vista della pandemia sono molte altre: da quella del Sudan del Sud, a quella dei campi profughi in Uganda, in Giordania, ai campi palestinesi in Libano e non solo, per non parlare delle carceri per migranti in Libia. In questo link l’Unhcr monitora costantemente i campi gestiti dall’Ente, fornendo aggiornamenti e notizie in tempo reale.

Paura tra i rohingya

Una delle situazioni da monitorare è quella dei rifugiati rohingya in Bangladesh dove si trovano centinaia di migliaia di persone fuggite dal Myanmar. Ma la situazione interna birmana  non è da meno  per il numero di sfollati interni nello Stato occidentale del Rakhine in seguito agli scontri tra le Forze armate del Myanmar e l’Esercito dell’Arakan (Aa) e che a partire da febbraio 2020 ha visto un netto aumento di vittime civili. La nuova ondata di persone  in fuga – circa 60mila – si è andata a sommare alle oltre 130mila persone già sfollate. È probabile che il numero di persone interessate dal conflitto sia notevolmente più elevato, considerato che i movimenti di popolazioni non si sono fermati e che presso alcuni insediamenti si registrano con frequenza nuovi arrivi. Il 3 marzo l’Unhcr aveva lanciato un appello di raccolta fondi per sopperire alle esigenze di circa 855mila rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar e rifugiatisi in Bangladesh e per gli oltre 444mila bengalesi vulnerabili nelle comunità che li ospitano.

Alcune famiglie sfollate hanno riferito al personale dell’Unhcr impegnato sul campo di aver bisogno con urgenza di cibo, riparo, acqua, servizi igienico-sanitari e articoli per l’igiene. Esprimono preoccupazione anche per la mancanza di servizi essenziali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione per i propri figli. A queste condizioni l’Unhcr ribadisce la preoccupazione per gli sfollati, particolarmente vulnerabili in questa emergenza sanitaria globale.

The New Unamitarian riporta a questo proposito l’appello di un rifugiato rohingya che vive nei campi del Bangladesh: “Senza Internet e i telefoni cellulari, è praticamente impossibile diffondere il messaggio su larga scala.”. Negli ultimi sei mesi nei campi, dove si trovano quasi un milione di rohingya, è stato infatti negato l’accesso a Internet e al telefono.

“Ciò che sentiamo sul virus – si legge –  sono false voci, trasmesse da persona a persona attraverso i campi: 100mila persone infette in un paese; decine di migliaia di morti in un altro. Questo da solo sta creando una situazione di panico e instabile nei campi. Siamo terrorizzati dall’essere abbandonati in questo momento di estrema necessità e rischio”.

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