Dossier/ Intrecciando futuro: donne, femminismi e resistenze

di Silvia Carradori e Alice Pistolesi 

A partire dagli anni Settanta, nelle Americhe si inizia a diffondere una serie di teorie individuali e saperi collettivi di donne razzializzate (che subiscono un razzismo strutturale) e subalterne che criticano il femminismo moderno occidentale, bianco, borghese e liberale. Quest’ultimo, infatti, viene accusato di raccontare una storia unica e lineare, rappresentata, per esempio, dalla definizione di “donna” come categoria generale o la naturalizzazione della dicotomia sessuale e di genere (maschio vs. femmina). Dagli anni Novanta in poi questo movimento si diffonde e prende sempre più voce, soprattutto per la necessità di una risposta forte alle problematiche che caratterizzano la fine del Novecento.

Questo periodo è attraversato da grandi novità, come l’espansione del neoliberalismo e l’adozione di un’ottica globale, sia nell’economia che nei movimenti sociali. Allo stesso tempo, si diffonde l’idea della democrazia come condizione statale ottima e si rafforza il concetto di diritto umano universale. Infine, entra in crisi il discorso marxista come unica guida dei movimenti sociali, dato che questo non avrebbe potuto ovviamente dare alcuna spiegazione sulla nascita dell’America Latina a partire da un contesto coloniale e liberale. Proprio in risposta a questo, il nuovo movimento sociale e di pensiero prende il nome di ‘femminismo decoloniale’ e affonda le sue radici nel femminismo nero, dal quale riprende, per esempio, l’idea di un certo razzismo presente nella categoria “donna”, che il femminismo bianco presenta come un concetto omogeneo e che porta, fra le altre cose, a una chiamata all’unità di tutte le donne (la cosiddetta sorellanza) senza prendere in considerazione differenze etniche e/o di classe.

Il femminismo decoloniale, invece, punta all’intersezionalità, proprio nel senso con cui ha coniato questo termine Kimberlé Crenshaw nel 1989: da una parte, nel Sistema Sesso/Genere la persona di cui si parla è la “donna bianca”; dall’altra parte, nel Sistema Razzista, la persona al centro del discorso è l’”uomo nero”. L’intersezione fra queste due categorie di lettura del mondo rende evidente quello spazio, reso invisibile fino a quel momento, e occupato dalla “donna nera”. Anche il femminismo postcoloniale ha contribuito alla formazione di questo nuovo movimento, che fa suoi i concetti di “privilegio epistemico” di Chandra Mohanty e “violenza epistemica” di Gayatri Spivak: nel primo caso, si sottolinea che chi sta alla base della società (cioè nei livelli più bassi) ha una punto di vista privilegiato, che dovrebbe essere incluso in qualsiasi discorso sulla società stessa; nel secondo, si punta il dito contro le élite che non possono rappresentare la subalternità, la quale, alla fine, rimane senza essere ascoltata, né considerata. Come il femminismo lesbico autonomo, anche quello decoloniale si dichiara diffidente dallo Stato e dalle sue istituzioni, e assume una posizione contraria a quel femminismo che, invece, aderisce ai programmi delle democrazie liberali.

Proprio per questo, critica duramente la politica degli “aiuti allo sviluppo” provenienti dagli organismi transnazionali, che continuano a perpetrare l’idea di un Sud del Mondo subordinato al Nord, come se il colonialismo continuasse anche attraverso la beneficenza. Ed è proprio la colonialità uno dei punti di critica più forti di questo nuovo movimento, dato che questa è un modello globale del capitalismo e impone una classificazione razziale delle popolazioni. È in questo contesto che María Lugones, una delle più importanti teoriche del femminismo decoloniale, lascia indietro l’idea di un Sistema Sesso/Genere per fare spazio a un Sistema Moderno Coloniale di Genere, nel quale “razza”, genere e sessualità fanno parte della stessa realtà, quella della colonialità. Questa è la grande rivoluzione del femminismo decoloniale: l’oppressione razziale e di genere ha una radice coloniale, che il femminismo bianco non ha incluso nel suo discorso.

In questo dossier si analizzano alcuni esempi di movimenti femminili, femministi e di resistenza nelle Americhe e in Australia. Nel prossimo, invece, ci concentreremo su quelli africani, asiatici ed europei.

Colectivo Mapuche Rangiñtulewfü

Il Collettivo Mapuche Rangiñtulewfü (“tra i fiumi”, in mapudungun) nasce nell’anno 2016 a Fütra Waria, Ngulumapu (Santiago, Cile), a partire dall’incontro di vari e varie componenti, che appartengono alla diaspora del Popolo Mapuche. In un un primo momento, il collettivo si è dedicato alla ricerca di possibili femminismi di carattere non egemonico, provenienti dai saperi legati al pensiero decoloniale, ai saperi comunitari, anti-razzisti, afro-discendenti e indigeni.

“Tuttavia – spiega il collettivo – in questo cammino di acque che si incontrano, abbiamo preso anche altre strade. Per esempio, oggi qualche componente del Collettivo non si definisce femminista e assume un punto di vista critico e contestualizzato nell’epistemologia eterogenea costruita e raccolta nel Wallmapu (Territorio Mapuche) e nell’Abya Yala. Le nostre conversazioni sono parte anche di riflessioni comuni, che ci danno la possibilità di ripensarci come comunità diasporica, dato che, in questi anni di esistenza abbiamo dovuto vivere anche varie trasformazioni, fra le quali i ritorni migratori”.

Oggi, Rangiñtulewfü è un collettivo misto, mapuche e champurria (categoria che rappresenta l’unione dell’essere mapuche con altre identità) che si costituisce superando le categorie binarie di genere e sessualità e che si estende sui territori che adesso fanno parte del Cile. L’interesse primario del collettivo è la costruzione di una società che si liberi sempre di più dal razzismo, della violenza patriarcale, della classe e dell’ordine coloniale, a favore di un Küme Mongen (buon vivere) accessibile a tutte le persone. Per questo, il collettivo considera fondamentali le alleanze fra popoli, così da poter ampliare l’orizzonte e superare le frontiere coloniali. In questo senso, le attività principali sono i trawün (incontri/riunioni), i nütram (dialoghi) e la realizzazione di due progetti: Yene Revista e la Cooperativa Editorial Chillka, tramite cui ha preso forma il lavoro portato avanti negli anni alla ricerca di un dialogo permanente.

Marcia Mondiale delle Donne

Nel 1995 in Quebec viene organizzata la Marcia delle donne contro la povertà. Ottocentocinquanta donne hanno camminato per dieci giorni, accolte al traguardo da  quindicimila persone. Questo è l’atto fondatore della Marcia Mondiale delle Donne, un movimento globale di azioni femministe che unisce gruppi di donne e organizzazioni varie nei cinque continenti. Dopo quel primo evento, nel 1997 si inizia a costruire una rete di associazioni e l’anno successivo circa 140 rappresentanti di 65 paesi diversi si riuniscono a Montréal su invito del Comitato di Coordinamento della Marcia del Québec.

Quello stesso anno si costituisce anche un Comitato Internazionale del quale fanno parte 44 donne che si occupano di coordinare le azioni a livello globale. Nella significativa data dell’8 marzo del 2000 viene ufficialmente presentata la Marcia Mondiale delle Donne. Fin dall’inizio questo movimento si è interessato non solo alle discriminazioni di genere e alla violenza che da queste deriva, ma soprattutto al legame di questi due aspetti con la sfera economica. L’obiettivo della Marcia è l’eliminazione delle cause della povertà, del razzismo e della violenza. Ogni gruppo si concentra su tematiche contestuali alla propria realtà, ma tutto il movimento si occupa di alcune aree principali: la violenza di genere, i diritti sessuali e riproduttivi (con particolare attenzione all’aborto), l’educazione popolare, l’economia femminista (a cui si legano, fra i tanti, i concetti di accesso al lavoro e sovranità alimentare), la pace e la demilitarizzazione dei territori.

Tutte queste tematiche sono affrontate partendo da un’ottica femminista, antirazzista, anti-capitalista, anti-patriarcale e decoloniale. Le azioni concrete spaziano dalle manifestazioni in strada ai corsi di formazione in scuole e istituti, dal lavoro sindacale alla partecipazione nei processi di ottenimento dei diritti umani, dalla fondazione di scuole di agro-ecologia alla creazione di tribunali etici per la salvaguardia dell’ambiente e dell’autonomia dei popoli indigeni. Ogni cinque anni viene organizzata un’azione a livello mondiale che coinvolge tutto il movimento. Il 2020, per esempio, è l’anno della quinta azione, che è dedicata alla lotta contro l’ascesa delle destre autoritarie e neoliberali. Non mancano, inoltre, gli appuntamenti annuali, scanditi da un calendario fisso e condiviso dai vari gruppi. Una data su tutte, quella del 24 aprile con la 24 ore di azione femminista: un modo per ricordare le più di mille vittime (quasi tutte donne) del crollo del Rana Plaza, edificio commerciale di Dacca (Bangladesh) usato da grandi marchi di abbigliamento come fabbrica tessile per la produzione dei propri capi e collassato nel 2013 per un cedimento strutturale.

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