Il lavoro della guerra (2)

a cura di Alice Pistolesi

Il lavoro e il conflitto sono strettamente legati in Africa. Il controllo delle risorse da parte di aziende straniere e con il beneplacito di eserciti e governi corrotti, sono ancora oggi una costante in molti Paesi africani vittime di guerra.

Dopo aver analizzato i casi di Ucraina, Venezuela e Siria nel dossier “Il lavoro della guerra” passiamo al continente africano. Di seguito riporteremo infatti alcuni esempi che riguardano il legame tra il lavoro, lo sfruttamento e in qualche caso la schiavitù in Libia e Repubblica Democratica del Congo. Come parziale notizia positiva, invece il caso della Costa d’Avorio, Stato che ha subito per anni un sanguinoso conflitto ma che è oggi meta per molti lavoratori.

*Nel testo l’immagine è tratta dall’appello di Medici senza frontiere “Libia: chiediamo la fine della detenzione arbitraria di rifugiati richiedenti asilo e migranti”

 

Sfruttati in Congo

Nonostante la grande ricchezza di risorse del suo territorio dal punto di vista lavorativo la situazione del Congo è drammatica. Oltre il 70 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 non ha un lavoro. Gli impieghi veri e propri sono pochi, per questo molti giovani lavorano in nero o passano alla microcriminalità. Lo sfruttamento del lavoro in Congo è cosa enormemente diffusa e legata all’estrazione di minerali come cobalto e coltan, fondamentali all’industria tecnologica.

La forza lavoro, composta anche da bambini, è nella maggiorparte dei casi senza diritti. I minerali estratti dal sottosuolo nelle peggiori condizioni lavorative, sono ancora oggi, anzi sempre più, causa di morti e conflitti. Protagonisti di questo conflitto le aziende multinazionali che lavorano il minerale.

Un buon lavoratore può produrre un chilo di coltan al giorno. Il guadagno di un lavoratore medio congolese è 10 dollari al mese, mentre un lavoratore del coltan guadagna dai 10 ai 50 dollari alla settimana.

Si stima che in Congo minatori, più o meno improvvisati, siano circa 100mila. Le persone scavano con strumenti rudimentali, senza supervisione e misure di sicurezza. I minatori tipo del coltan sono giovani agricoltori e allevatori che hanno lasciato i loro campi, oppure sfollati dalla guerra, prigionieri di guerra e migliaia di bambini. I lavoratori del coltan lavorano dall’alba al tramonto. Dormono e mangiano nelle zona selvagge di montagna e smettono quindi di coltivare la loro terra. Inoltre il coltan è radioattivo e anche chi non lavora direttamente nelle miniere risente della radioattività.

La presenza del lavoro minorile è stata ammessa dallo stesso ministro del Lavoro e del Benessere sociale, Lambert Matuku Memas nel 2017. L’allora ministro aveva infatti annunciato che entro il 2025 non ci saranno più bambini -lavoratori nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo. Nel 2016 Amnesty International e Afrewatch avevano pubblicato un rapporto che denunciava la pratica dell’utilizzo di bambini dai sette anni, per la ricerca del cobalto.

Non ci sono dati certi sul numero esatto di minori che estraggono dalle miniere ma nel 2014 Unicef aveva diffuso la stima di 40mila bambini impiegati nelle miniere del sud del paese. E’ comunque probabile che oggi siano molti di più. Per redigere il suo rapporto, Amnesty International aveva contattato 16 multinazionali che risultavano clienti delle tre aziende che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo. Nessuna delle 16 aziende era stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto.

Per estrarre il coltan del Congo sono stati invasi anche i parchi nazionali, compresi nel patrimonio dell’umanità dell’Unesco. La guerra interna causata dalle risorse ha seriamente danneggiato le condizioni economiche per il mantenimento dei parchi e molti dipendenti hanno abbandonato il lavoro. Tutti i siti sono elencati nel patrimonio in pericolo.

La schiavitù in Libia

In Libia si è ben lontani dal rispetto dei diritti del lavoro e, in generale, di quelli di ciascun essere umano. Il conflitto e la situazione di violenza diffusa ha creato una situazione drammatica anche per i migranti che arrivano in Libia per lavorare e che si sono trovati intrappolati in quello che è da molti definito un inferno. Organizzazioni e stampa internazionale hanno infatti più volte documentato la tratta degli schiavi in corso.

Un reportage della Cnn del 2017 svelò alcuni degli scenari di questa tratta attraverso un servizio nel quale si vedeva uno dei momenti di questa ‘asta’ di esseri umani. E se ci domanda quante vale la vita di uomo, in Libia, se si tratta di un centrafricano migrante, forte, adatto al lavoro nei campi, la risposta è meno di 800 euro. I prezzi poi cambiano, e salgono, a seconda che si tratti di donne, ragazze, bambini. Il documento giornalistico arrivò nel giorno della grande accusa lanciata dall’Onu per l’accordo che ha chiuso la rotta del Mediterraneo Centrale tra Libia, Ciad e Niger, Francia, Germania, Italia e Spagna.

L’Onu definì questo patto che bloccò (e tuttora blocca) in Libia decine di migliaia di migranti “disumano” e “un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Gli osservatori rimasero infatti “scioccati” nel vedere con i propri occhi “le sofferenze dei migranti detenuti in Libia” tra cui episodi di “schiavitù moderna, stupri e altre forme di violenza”.

Anche secondo organizzazioni come Oxfam e Action Aid, i migranti sono rimasti intrappolati in un “inferno” e sono diventati “schiavi”. Dal 2017 molti sono stati gli appelli arrivati dalle stesse prigioni da migranti rinchiusi che sono riusciti a filmare parti dell’orrore e le testimonianze di chi è riuscito infine a raggiungere le coste italiane.

La schiavitù in Tripolitania non è episodio, ma è diventata sistema di produzione. Quei pochi soldi che i migranti ottengono attraverso l’impiego in aziende locali, non possono essere spediti a casa dato che i pochi istituti di credito del territorio non ne consentono l’invio all’estero.

L’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha calcolato che nei primi sei mesi del 2018 sono stati 8.938 i rimpatri di persone provenienti da 30 Paesi dell’Africa e dell’Asia, un numero estremamente esiguo rispetto alle 700mila presenze, stimate in Libia dall’Organizzazione nel novembre 2017.

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