Lavoro, diritti in caduta libera

a cura di Alice Pistolesi

Il 2018 non è stato un anno di positive novità per i diritti dei lavoratori. E dove non ci sono diritti le disuguaglianze provocano nuovi conflitti o esacerbano quelli già esistenti. Per questo il primo dossier 2019 dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo intende volgere uno sguardo alla situazione dei diritti del lavoro a livello globale.

Una istituzione che monitora l’andamento della situazione lavorativa nel Globo è la Federazione Mondiale dei sindacati (vedi chi fa cosa). Secondo il rapporto 2018 stilato dalla Confederazione i diritti dei lavoratori sono in caduta libera. La quinta edizione del rapporto ha analizzato lo stato di salute di 142 Paesi sulla base di 97 indicatori riconosciuti a livello internazionale.

Partiamo quindi da qualche dato. Molti paesi escludono varie tipologie di lavoratori, se non proprio tutti, dal diritto del lavoro: lavoratori migranti, dipendenti del settore pubblico, addetti delle attività commerciali. Il 65% dei paesi esclude infatti intere categorie da coperture e tutele legislative.

Inoltre nel 2018 l’87% dei paesi analizzati ha violato il diritto di sciopero, l’81% negato la contrattazione collettiva ad alcuni o a tutti i lavoratori, 54 dei 142 paesi hanno negato o limitato la libertà di parola e libertà di riunione, il numero di paesi in cui i lavoratori sono esposti a violenza fisica e minacce è aumentato del 10% (da 59 a 65) e comprende Bahrain, Honduras, Italia e Pakistan. I paesi in cui i lavoratori sono arrestati e detenuti sono aumentati da 44 nel 2017 a 59 nel 2018.

Nel corso di questo dossier analizzeremo alcune di queste tendenze e forniremo alcuni esempi di violazione o di nuove legislazioni che vanno a ledere questi diritti, a partire dal recente caso ungherese (vedi approfondimento 1).

La legge sulla schiavitù ungherese

E’ stata approvata nel dicembre 2018 in Ungheria la riforma del codice del lavoro definita da sindacati e contestatori ‘legge sulla schiavitù’.

Con 130 voti favorevoli e 52 contrari il parlamento di Budapest ha approvato una dell e legge più discusse degli ultimi anni. La riforma del codice del lavoro ha infatti alzato a un massimo di 400 ore annuali (invece che 250) il numero delle ore straordinarie legali e consentito di ritardarne il pagamento anche per tre anni.

La nuova legge prevede che ai dipendenti potrà essere chiesto  di lavorare per sei giorni alla settimana o per cinque giorni ma per dieci ore al giorno. Il testo metterà, secondo i sindacati, i lavoratori in una situazione di svantaggio e sarà loro impossibile opporsi alle richieste delle aziende. Il testo ha provocato, già in fase di discussione pesantissime polemiche e ha dato vita a partecipate manifestazioni di piazza. Le proteste (quattro in una sola settimana a Budapest) hanno a più riprese provocato scontri fra polizia e manifestanti. Le manifestazioni contro la legge del governo presieduto da Viktor Orbán sono state represse con cariche e lanci di gas lacrimogeni: un uso indiscriminato della violenza condannato anche dalla ong Amnesty International.

Secondo alcuni osservatori la mossa di Orban è stata dettata dalla sua volontà di bloccare ad ogni costo l’arrivo di lavoratori da altri Paesi. In Ungheria, infatti, mancano lavoratori e soprattutto  manodopera qualificata, mentre la disoccupazione è arrivata nel 2018 ai minimi storici attorno al 3,7%. Con il nuovo codice, quindi, si autorizzano le imprese a far lavorare di più i lavoratori già assunti senza dover cercare altra manodopera, in primis all’estero.

 

Uno sguardo globale

Il rapporto dell’Ituc fornisce una panoramica globale del lavoro facendo alcuni esempi. Si parte dall’Arabia Saudita, dove persiste la più totale negazione dei diritti fondamentali dei lavoratori. Pessima la situazione dei lavoratori anche in Libia, Palestina, Siria e Yemen, dove i conflitti hanno portato alla rottura dello stato di diritto. E inoltre da citare la repressione delle proteste pacifiche del movimento operaio in Algeria e in Egitto.

Nel Continente africano i lavoratori sono stati esposti a violenze fisiche nel 65% dei paesi. In Nigeria le proteste sono state represse nel sangue dall’esercito e un lavoratore è stato ucciso durante uno sciopero. Oltre al Medio Oriente e all’Africa il rapporto rileva il deterioramento delle condizioni di chi lavora anche in  Asia, dove l’aumento della violenza e degli arresti, la criminalizzazione del diritto di sciopero e la detenzione di attivisti e dirigenti sindacali hanno subito un pericoloso incremento. Inoltre in tutti i ventidue paesi della regione sono stati violati contrattazione collettiva e il diritto di sciopero.

In Indonesia si sono verificati licenziamenti di massa (sono 4.200 i lavoratori che sono stati mandati a casa dall’operatore minerario Pt Freeport). In Myanmar sono stati invece licenziati 184 membri del sindacato e in Cambogia 558 lavoratori hanno perso il lavoro dopo aver partecipato a uno sciopero alla Gawon Apparel Factory.

Non se la passa meglio l’Europa, dove il il 58% dei paesi ha violato i diritti di contrattazione collettiva e tre quarti dei paesi non hanno rispettato il diritto di sciopero. Brutta la situazione anche per l’America del Nord e del Sud, ancora afflitte da violenza e repressione nei confronti dei lavoratori e dei membri del sindacato. Solo in Colombia sono stati 19 i sindacalisti sono stati assassinati nel 2017. Erano 11 nel 2016.

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