di Emanuele Giordana
La bandiera dei diritti umani, la cui la Dichiarazione universale compie in dicembre 71 anni, troppo spesso è stata utilizzata per violarli. E per violarne il primo: vivere. Se la guerra è lo strumento per eccellenza della violazione dei diritti individuali e collettivi, due conflitti in piena salute sono forse i modelli attraverso cui i diritti umani sono stati utilizzati meglio per farne carta straccia. Il primo è il conflitto afgano, che compie quest’anno 40 anni, iniziato con l’invasione sovietica del ‘79 per proseguire con quella post11 settembre: entrambe sotto l’ombrello dei diritti. Per Mosca erano quelli della proprietà terriera diffusa, del diritto ad avere acqua potabile e servizi sanitari e, per le donne, di essere direttrici di giornali o ministre. L’invasione Nato-americana iniziò anch’essa con la bandiera dei diritti: delle donne, all’istruzione, alla democrazia. Ma l’imposizione armata dei relativi modelli di governance ha prodotto quello che abbiamo sotto gli occhi: nell’89 l’Urss si ritirò lasciando un Paese distrutto. Quanto a “noi”, nel 2019 i bombardamenti arei sono triplicati, negli ultimi mesi le vittime sono quasi duplicate e infine sappiamo che squadroni della morte addestrati dalla Cia fanno il lavoro sporco.
Di che diritti parliamo? La Libia è un altro manifesto del fallimento della Carta perché la guerra dilagata in quel Paese in mano a milizie e bande armate e dove si violano costantemente i diritti dei migranti, nacque dalla risoluzione 1973 del 2011 che, se giustamente poneva il problema della difesa dei civili allora accerchiati a Bengasi, fu il via libera all’uso della forza e, di fatto, all’intromissione nel Paese degli appetiti più diffusi che stavano aspettando il momento giusto non certo per salvaguardare diritti quanto per appropriarsi di pozzi e giacimenti. Sarebbe dunque il caso, per onorare quella Carta, di ripensare agli strumenti da usare perché la bandiera dei diritti non sia la strada migliore per violarli col suo brando più violento: la guerra.
L’occasione di questa riflessione personale è stata il convegno organizzato da PeaceGeneration e introdotto dalla sua presidente Marcella Foscarini mercoledi alla Camera e il cui titolo invitava a riflettere sullo stato della Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dall’Onu nel 1948: A che punto siamo? I Diritti umani sono ancora diritti, e sono ancora universali?
Tra le molte risposte e i molti interventi dei relatori, Fabio Mini ha proposto quella dell’ossimoro della “Guerra per i diritti umani”: ossimoro degli ultimi 30 anni che ha il suo apice nella “guerra umanitaria” del Kosovo. Del resto – dice Mini – la Carta “svolge un ruolo morale ma non è giuridicamente vincolante” e “in caso di emergenza o pericolo per lo Stato, il diritto dei conflitti armati (Diritto internazionale bellico poi diventato Diritto internazionale… umanitario) diventa prevalente con le violazioni che ne conseguono”. Non solo con le armi: “le sanzioni economiche possono far peggio”. Comunque, “se la difesa dei diritti non è il primo pretesto per fare la guerra lo diventa poi a guerra in corso”. E gli strumenti di tutela (come la Corte penale internazionale) “intervengono solo dopo, mai preventivamente. A forza di violare le regole – mette in guardia Mini – la violazione diventa norma”.
Franco Ippolito (Fondazione Basso) riprende la relazione tra diritti effettivi e retorica politica sottolineando – a una platea di giovani studenti – un fallimento: “Abbiamo ereditato grandi conquiste con al centro la dignità dell’uomo ma la nostra generazione non ha saputo rendere effettivi quei diritti”. E’ un invito a chi adesso si ribella alla negazione anche dei diritti ambientali, nodo affrontato da più di un relatore. L’accademico Gianfranco Amendola vi affianca il tema del lavoro (l’Ilva ad esempio) e sottolinea come il diritto all’ambiente sia sancito da ben quattro articoli della nostra Costituzione (4, 9, 32, 41). In proposito Rosario Lembo, del Contratto Mondiale sull’Acqua, ricorda l’importanza di una risorsa per la quale non esiste un accordo internazionale che possa regolare (e sanzionare) la gestione di quello che oggi è “merce e bene economico più che un diritto”.
Questo commento è uscito sabato anche su il manifesto
In copertina il poster con la dichiarazione nelle mani di Eleanor Roosevelt (1949)