Dopo anni di diffidenza e scontri il nuovo Governo cileno tenta la via del dialogo e un primo passo è stato fatto: il 26 marzo non è stato rinnovato lo Stato di emergenza e i militari hanno lasciato la regione mapuche
di Alice Ferraglio
A pochi giorni dall’insediamento del neo-governo Boric, la ministra dell’interno Izkia Siches si era recata in Araucania per incontrare Marcelo Catrillanca, padre di Camilo Catrillanca, militante e dirigente del movimento mapuche, ucciso il 14 novembre 2018 a Temucuicui durante un’operazione di polizia. L’incontro con Catrillanca, svoltosi nella giornata del 15 marzo, rappresentava l’occasione per portare la vicinanza del governo alle vittime mapuche e per allentare la diffidenza della comunità verso lo Stato. Diffidenza che si è palesata anche in quella circostanza istituzionale: entrata nel territorio della comunità mapuche di Temucuicui, l’auto che portava la ministra Siches e Catrillanca è stata accolta con degli spari in aria, motivo che ha spinto la ministra a tornare indietro e a spostare il luogo dell’incontro nella sede del comune di Ercilla. Stando alle dichiarazioni di Catrillanca, gli spari erano dovuti allo scarso preavviso con cui era stata annunciata la visita, definita da lui stesso “molto improvvisata”.
È difficile comprendere le ragioni che stanno dietro a quel gesto di ostilità se si prescinde dalla storia del conflitto mapuche, risultato di una politica statale repressiva, iniziata nel 1860, con quello che viene chiamato “processo di pacificazione dell’Araucania”, un’operazione militare con cui il Cile ha incorporato i territori del popolo mapuche nel dominio dello Stato. Per il popolo mapuche questo ha significato non solo espropriazione territoriale, ma anche una condizione di povertà che dura tuttora e colpisce il 30,2% della popolazione indigena contro il 19,7% di quella non indigena.
Delle terre mapuche, circa 280.000 ettari sono oggi di proprietà dell’industria forestale: una situazione inaccettabile per la comunità, che alla terra conferisce un valore sacrale. Una visione inconciliabile con le pratiche di sfruttamento del terreno dell’industria forestale, la cui politica di piantumazione di alberi di pino ed eucalipto causa inaridimento del terreno e sparizione della biodiversità. Per contrastare quella che viene vissuta come un’usurpazione e una negazione dell’identità culturale, gruppi facenti parte della comunità hanno messo in campo, negli anni, diversi strumenti di lotta: sciopero della fame, occupazione delle terre fino ad arrivare ad atti di sabotaggio ai danni dell’industria forestale.
A queste pratiche di resistenza, lo Stato ha risposto attraverso la repressione, dispiegando forze dell’ordine e manipolando l’esito dei processi. L’ultimo esempio di repressione armata porta la data del 12 ottobre del 2021, giorno in cui l’ex presidente Sebastian Piñera, ha dichiarato lo Stato di emergenza e la militarizzazione dell’Araucania. Provvedimento che ha destato la pubblica preoccupazione dell’Onu, che ha letto in questo provvedimento il pericolo di inasprimento delle tensioni. Per quanto riguarda la manipolazione giudiziaria, gli abusi dello Stato cileno sono stati denunciati da Amensty International nel 2018: tra le accuse, vi è quella di avere applicato arbitrariamente la legge antiterrorista per colpire gli attivisti della causa mapuche.
Non sorprende che parte della comunità Mapuche nutra diffidenza, se non addirittura ostilità verso lo Stato. Di questo, il presidente Boric è consapevole, e ha dichiarato che “il conflitto non si risolve dalla sera alla mattina” riconoscendo che la via del dialogo avrà bisogno di tempo. Intanto, un primo passo è stato fatto: il 26 marzo non è stato rinnovato lo Stato di emergenza e i militari hanno lasciato l’Araucania.
Questo articolo è parte di una collaborazione didattico-giornalistica tra Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo e l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Gli autori sono giovani tra i 18 e i 28 anni che stanno svolgendo servizio civile all’estero