Dossier/ Disarmo Climatico: dati e azioni possibili

Di disarmo Climatico e di azioni possibili per fermare l’imminente catastrofe ambientale e sociale si è parlato nella tre giorni organizzata a Trento da Rete Italiana Pace e Disarmo, l’Associazione 46° Parallelo e il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani e in collaborazione con il MUSE (Museo delle scienze) e l’Agenzia provinciale per la protezione dell’Ambiente del Trentino, Agenda 2030. In questo dossier si riportano alcuni degli spunti emersi nelle sessioni di lavoro del convegno.

Qui il dossier pubblicato in vista dell’evento 

Qui l’articolo di resoconto della tre giorni con gli interventi dei relatori

*In copertina un’immagine di Margherita Pilati. Di seguito la mappa realizzata dal Ceobs

Italia e Nato proteggono le fonti fossili

Nonostante gli effetti di gas e petrolio sulla crisi climatica l’Italia, secondo un rapporto di Greenpeace, destina circa il 70% della sua spesa per le missioni militari in operazioni a tutela delle fonti fossili per un costo di 870milioni di euro nel 2022. Inoltre, due missioni nazionali hanno come primo compito la protezione di asset Eni in acque internazionali e circa due terzi delle missioni Targate Ue sono collegate alle fonti fossili. Per fare alcuni esempi. L’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea ha come primo obiettivo “proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali”. Eni ha infatti piattaforme offshore sia in Nigeria che in Ghana. Il legame con le fonti fossili di questa missione emerge anche dalla tipologia di navi prese di mira dalla pirateria: nel 2020 il 23% erano petroliere. Nel 2022 la missione è costata all’Italia 20,5milioni di euro.

Un’altra operazione strategica in questo senso è la Atalanta, la missione antipirateria Targata Ue che si svolge dal 2008 nel Golfo di Aden e nell’Oceano indiano e che ha il compito di proteggere principalmente gasiere, carboniere o altre navi con carico “energetico”. Il costo nel 2022 è stato di 26,8milioni di euro. Anche per la ‘Mare Sicuro’ in Libia la prima attività è la “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa”. Rispondendo a un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle del 2016, il Governo aveva precisato che nell’area le “piattaforme di interesse nazionale sono quattro”. Nel 2022 il costo per l’Italia ha raggiunto i 95,4milioni di euro.

Da citare anche due nuove operazioni “fossili”, a cominciare dalla missione bilaterale di supporto alle Forze armate del Qatar in occasione dei “Mondiali di calcio 2022” (spesa per il nostro Paese: 10,8milioni di euro). In questo caso il contributo italiano “mira al rafforzamento della sicurezza nel Golfo Persico” e “risponde all’esigenza di valorizzare gli interessi nazionali in un’area di importanza strategica”. Interessi che sono principalmente ‘fossili’. Nel mese di giugno 2022, infatti, Eni è entrata “nel più grande progetto al mondo di Gnl in Qatar”.

I militari italiani parteciperanno anche a Eutm Mozambique, la missione istituita in Mozambico dal Consiglio Ue nel 2021, con l’obiettivo di “sostenere le forze armate mozambicane nel ripristino della sicurezza e della protezione nella provincia di Cabo Delgado” (costo per l’Italia: 1,2milioni di euro). Già nel luglio 2021, l’ex ministro della difesa Lorenzo Guerini aveva sottolineato come l’escalation delle violenze nella provincia nord del Paese avesse causato “le interruzioni dell’attività estrattiva”. Tra le fine del 2022 e l’inizio del 2023, la più grande nave con impianto di liquefazione al mondo (targata Eni) produrrà il suo primo carico di Gnl proprio nelle acque al largo del Mozambico.

Proteggere l’energia è anche uno dei compiti delle missioni Nato. Il rapporto “Transnational corporations, warmongering and the climate emergency” pubblicato nell’ottobre 2022 dal Centre Delas riporta un’analisi dei documenti sulla sicurezza e la difesa del Vertice Nato di Madrid 2022, che giustificano come la sicurezza energetica sia un fattore che richiede la difesa militare contro gli “attacchi ibridi”. Già nel 2010, quando la Nato approvò il suo “Strategic Concept”, nell’elenco delle varie insicurezze che dovrebbero essere motivo di preoccupazione per i paesi membri c’era l’energia, oltre ai cambiamenti climatici. La menzione dell’energia avvertiva che la crescente scarsità di combustibili fossili li rendeva una risorsa strategica per il comune sistema politico ed economico degli Stati membri, dal momento che, come descrive lo stesso preambolo dell’organizzazione, la sua missione principale è difendere lo stile di vita collettivo.

Militarizzazione e migrazione

Rispondere ai cambiamenti climatici con la militarizzazione comporta dei gravi rischi ambientali e sociali. Uno di questi riguarda la migrazione. Il Transnational Institute rileva come in molti piani nazionali di sicurezza e militari ci si concentri sulla minaccia dei migranti. In un rapporto di ricerca realizzato prima del vertice Cop26 di Glasgow si sottolinea che i Paesi più ricchi spendono in media 2,3 volte di più per la militarizzazione delle frontiere che per le misure per il clima. Alcuni Paesi spendono ancora di più: gli Stati Uniti 11 volte, l’Australia 13 volte. In tutto il mondo, inoltre, si è verificata una crescita esponenziale delle frontiere presidiate: da 6 muri finalizzati al blocco dei migranti nel 1989, il Tni, ne conta quasi 70 oggi. L’enorme aumento dei finanziamenti per le deportazioni, la sorveglianza, i sistemi biometrici, non sono dispiegati solo in Europa, ma anche in tutto il Nord Africa, con l’obiettivo di non far arrivare le persone sulle coste europee. “Il risultato – spiega il ricercatore Nick Buxton – è un aumento del numero di morti e la trasformazione del Mediterraneo in un cimitero creato dall’Unione Europea. Queste strategie di sicurezza climatica hanno trasformato le vittime del cambiamento climatico in minacce, la cui vita diventa in qualche modo sacrificabile”.

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